Focus Dostoevskij | L'articolo d'autore

Argomento: Focus | Dostoevskij
Pubblicazione: 28 settembre 2022

Leggere Dostoevskij quando siamo a terra

Articolo di: Hermann Hesse (Vossische Zeitung, 1925)

Traduzione dal tedesco di Lucio Coco


Su Dostoevskij non c’è niente di nuovo da dire. Tutto quello che di intelligente e corretto, tutto è già stato detto, tutto a suo tempo era nuovo e arguto e nel frattempo è già invecchiato, mentre la figura amata e terribile dello scrittore ci appare sempre nuova segnata di segreto e di mistero, quando noi nelle ore del bisogno e dell’introspezione andiamo ad essa. Il borghese che legge di Raskol’nikov e che, sul canapè, ricava per sé un piacevole orrore da questo mondo spettrale, non è il vero lettore di questo scrittore, così come lo è poco lo studioso e l’intellettuale che resta ammirato della psicologia dei suoi romanzi e scrive buone pubblicazioni sulla sua concezione del mondo. Noi dobbiamo leggere Dostoevskij quando siamo a terra, quando abbiamo sofferto fino al limite della nostra sopportazione e avvertiamo tutta la vita come una ferita che brucia e arde, quando noi respiriamo disperazione e siamo morti della morte della disperazione. Allora, quando noi, soli a terra e paralizzati, fissiamo lo sguardo alla vita e non la capiamo più nella sua selvaggia e bella crudeltà e non vogliamo più avere niente a che fare con essa, ecco che siamo pronti per la musica di questo terribile e magnifico poeta. Quando noi non siamo più spettatori, quando non siamo più degustatori e giudici, quando siamo dei poveretti, fratelli di tutti i poveri diavoli dei suoi romanzi, quando patiamo le loro pene, quando fissiamo insieme a loro, ammaliati e trattenendo il respiro, il vortice della vita, l’eterna mulinante macina della morte. Allora anche noi sentiamo la musica di Dostoevskij, il suo conforto, il suo amore, perché allora noi viviamo il meraviglioso significato del suo mondo spaventoso e così spesso infernale. Due forze ci prendono in questi testi, dal cui venire e andare e dalla contrapposizione di due elementi e poli opposti cresce la profondità mitica e la violenta spazialità della sua musica. Una è la disperazione, il subire il male, il tollerare, il non opporsi alla brutale, sanguinosa ferocia e problematicità dell’umana natura. Di questa morte si deve morire, questo inferno deve essere percorso, se anche l’altra, la voce celestiale del maestro ci possa raggiungere. La sincerità e la schiettezza della confessione che la nostra esistenza e la nostra umanità sono una povera cosa, discutibile e forse senza speranza: questo è il presupposto. Dobbiamo arrenderci al dolore, aver ceduto alla morte, il ghigno assolutamente infernale della nuda realtà deve aver raggelato il nostro sguardo prima che possiamo comprendere la profondità e la verità della seconda, dell’altra voce. La prima voce risponde di sì alla morte, nega la speranza, rinuncia a tutti gli abbellimenti e rabbonimenti concettuali e poetici con i quali siamo abituati a farci mascherare da autori gradevoli il pericolo e l’orrore dell’esistere umano. Ma la seconda voce, quella davvero divina del nostro scrittore, ci mostra un altro celeste aspetto, un elemento diverso dalla morte, un’altra realtà, un’altra essenza: la coscienza dell’uomo. Sia pure tutta la vita umana guerra e dolore, bassezza e orrore – oltre ciò c’è ancora qualcos’altro, la coscienza, la capacità degli uomini di contrapporsi a Dio. Certamente la coscienza ci conduce attraverso il dolore e l’angoscia per la morte alla miseria e alla colpa, ma essa ci porta fuori dalla solitaria insopportabile insensatezza, mettendoci in relazione con il senso, con l’essenza e con l’eterno. La coscienza non ha niente a che vedere con la morale, con la legge, anzi può porsi nella più terribile e mortale contrapposizione ad esse, ma è infinitamente forte, più forte dell’inerzia, più forte dell’egoismo, più forte della vanità. Essa mostra nel più profondo squallore, nell’ultimo smarrimento che è sempre aperta una strada stretta, non già nel ritorno al mondo destinato alla morte, ma al di là di esso, verso Dio. Ardua è la via che conduce gli uomini alla propria coscienza, quasi tutti vivono sempre più in contrasto con questa coscienza, le si oppongono, si caricano sempre più pesantemente e periscono per averla soffocata, ma ad ognuno in ogni momento, al di là del dolore e della disperazione, rimane quella via silenziosa, che dà senso al vivere e rende la morte lieve. Uno deve infuriarsi e peccare così tanto contro la propria coscienza finché è passato per tutti gli inferni e si è sporcato con ogni cosa disgustosa per avvertire, finalmente, sospirando, l’errore e vivere l’ora della trasformazione. Altri sono in buona amicizia con la loro coscienza – si tratta di uomini rari, felici e santi. A loro può accadere ciò che si vuole, ma tutto li colpisce dall’esterno, non li raggiunge al cuore, essi restano sempre puri. Il sorriso non scompare dai loro volti. Uno di questi è il principe Myškin. Queste due voci, entrambi questi insegnamenti, ho sentito in Dostoevskij nei tempi in cui ero un buon lettore dei suoi libri, nelle ore in cui la disperazione e il dolore mi avevano preparato. C’è un artista per il quale ho provato qualcosa di simile, un musicista che io non amo sempre e non sempre posso ascoltare, allo stesso modo in cui non potrei sempre leggere Dostoevskij. È Beethoven. Egli ha quel sapere della felicità, della sapienza e dell’armonia che però non si trovano sulle strade piane, ma che lampeggiano lungo vie che danno sull’abisso, che non si possono prendere con un sorriso, ma solo tra le lacrime e essendo sfiniti dal dolore. Nelle sue sinfonie, nei suoi quartetti ci sono dei punti dove dalla pura miseria e da un sentimento di perdizione brilla un che di infinitamente toccante, qualcosa di infantile e tenero, l’avvertimento di un senso, un sapere di redenzione. Tutti questi punti li trovo di nuovo in Dostoevskij.