L’appuntamento è per le cinque. Alle quattro e trenta lo spazio presentazioni è già stipato di persone che attendono in ansia, copia alla mano, che arrivi Amélie. Fa molto caldo dentro. Fuori invece soffia un vento freddo, ma dalla luce si direbbe che a Firenze sia già primavera. Ed eccola che arriva, accompagnata dall’editrice Daniela Di Sora di Voland. Dell’incontro fisico con Amélie Nothomb colpisce la sua bellezza. Un’accozzaglia di culture sembrano aver preso posto, tutte, nessuna esclusa, nella sua persona. I capelli corvini sul make up avorio da giapponese, il rouge di una parigina, l’allure di una ragazza perbene di Bruxelles. Eppure quegli occhi da enfant terrible rivelano che dentro a mademoiselle Nothomb c’è qualcosa di selvaggio. È vestita di nero, non un gioiello, solo il suo capottino retrò la lega alla ragazza un po’ spettrale dai cappellini bizzarri. Ora è una donna più matura che gioca meno con l’immagine e di più con le parole perché, a detta di tutti, quest’ultimo romanzo che presenta nel suo tour italiano è un’opera diversa. Con trama più semplice e linguaggio più limpido e frastagliato di prima. Amélie guarda il pubblico sorride e dice: «Cosa vi aspettate che faccia? Venite avanti!». Firma le copie e se ne va all’appuntamento successivo presso la libreria Giunti, ore sei. Mezza Edison che non si accontenta solo di averla vista si sposta in pellegrinaggio di là d’Arno, dopo Ponte Vecchio. Arrivati alla libreria la situazione è a dir poco delirante, non c’è spazio per un sospiro e nel farsi posto c’è chi butta giù libri e scaffali. Un fiume umano. Riesco fortunatamente a fermare un minuto la traduttrice di Amélie Nothomb, Monica Capuani, prima che inizi la presentazione e gentilmente risponde, in una situazione tutt’altro che comoda, alle mie domande.
La lettura dell’incipit di Causa di forza maggiore da parte dell’autrice, offre lo spunto alla Capuani per un dialogo-intervista intelligente e divertente che fa emergere sia il libro sia la personalità dell’autrice in un composto omogeneo. Si parla della scelta del titolo e dei nomi dei protagonisti ma anche del dialogo, forma privilegiata della scrittura nothombiana, e del ritmo che l’autrice ritiene fondamentale: «Se fate le cose più bizzarre fatele in fretta e nessuno se ne accorgerà», dice. È però la crisi d’identità, schema narrativo di Causa di forza maggiore il tema centrale dell’incontro. Il mestiere di scrivere, il rapporto piacere-dolore, i viaggi. L’universo nothombiano emerge da quest’incontro in bilico tra realtà e possibilità, un confine del possibile che Amélie riesce a rendere sottilissimo.
Per un’ora si dà da fare per mostrarsi com’è, un’antidiva. Maledettamente chic e al contempo mai altezzosa, la Nothomb dà una lezione ai molti autori boriosi su come prendersi in giro senza perdere dignità, su come ringraziare i lettori senza diventare stucchevole. Con i suoi personaggi sembra condividere la possibilità delle grandi sorprese, la mancanza di pregiudizi, l’essere “chi si è” in quel momento malgrado “chi siamo stati” o “chi diventeremo”.
Quando finalmente mi siedo accanto a lei per intervistarla, non posso fare a meno di pensare alle magnifiche bambine di Mark Ryden, un insieme magico di purezza e perversità. Perché questa donna, capace di sputare aforismi affilati come la lingua di Mme De Merteuil, offre anche l’opportunità ai personaggi più viscidi di redimersi. «Non è mai troppo tardi per smettere di essere un mostro». Letteratura? Forse sì, ma in un mondo in cui è il presente che conta forse renderebbe le nostre vite più facili e soprattutto più leggere. Come dice la Nothomb anche il piacere può definire la personalità. Ascoltarla e leggerla ne sono la prova.