Sul magazine online di minimum fax, insieme a Marco Cassini parlate della collana minimum classics, in cui rientra il romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road. Al momento del lancio della collana, nel 2003, avevi dei dubbi sul successo di questo progetto editoriale. Oggi, nel 2009, quali sono le tue considerazioni?
La conversazione a cui ti riferisci avveniva appunto nel maggio 2003, al momento della partenza della collana, che si proponeva di riscoprire e riproporre una serie di opere del Novecento mai pubblicate in Italia o da lungo tempo fuori commercio. Quella è sempre una fase delicata, una scommessa: non si può mai sapere in anticipo se i lettori ti premieranno. E poi, per scaramanzia, uno tende sempre a non immaginare trionfi. Ma ora, a qualche anno di distanza, il bilancio possiamo farlo, ed è positivo. I lettori si sono affezionati alla collana e i riscontri di vendite sono positivi; autori più sperimentali e difficili, come Donald Barthelme, John Barth, William Gass e Stanely Elkin, hanno ovviamente un pubblico più ristretto, ma appassionato (i lettori ci scrivono spesso chiedendo se pubblicheremo altre loro opere), e hanno collezionato recensioni entusiastiche. Altri, come Richard Yates, Bernard Malamud, Walter Tevis, Alan Sillitoe, hanno avuto un buon successo anche dal punto di vista commerciale. Ne siamo felici, e su di loro continueremo a puntare e a investire. La grande popolarità di cui sta godendo Revolutionary Road in questo momento, grazie anche al film di Sam Mendes, ci fa felici, perché premia la nostra lungimiranza: ci eravamo accorti della grandezza di un autore sottovalutato come Yates ed eravamo i suoi editori già da anni; così non abbiamo dovuto competere con altri nel momento in cui è stato riscoperto dall’editoria internazionale.
Ma soprattutto, abbiamo l’impressione che i lettori siano arrivati a percepire i minimum classics come una collana, e che acquistino e aspettino i nuovi titoli sulla base di una fiducia per il nostro gusto, le nostre scelte, anche a prescindere dal fatto che conoscano o meno gli autori che presentiamo: che «collezionino», o quasi, questi libri, dimostrando un’attenzione e una curiosità sempre più rare in un mercato editoriale dove spesso riescono a funzionare solo i libri in qualche maniera «già noti» perché resi famosi da un film, o pubblicizzati massicciamente, o scritti e promossi sulla falsariga di best-seller precedenti.
Sempre in tema di «classici» quali Malamud, Yates, Woolf, Barthelme, Sillitoe e altri. Oltre a puntare sull’abilità nel creare una collana che si affermi nel mercato editoriale, quando secondo te un autore può considerarsi un «classico»?
Quando riesce a parlare ai lettori di diverse generazioni con uguale intensità; per citare Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».
Parliamo di Revolutionary Road e della traduzione dei romanzi di Richard Yates.
Nel 2003, prima pubblicazione minimum fax di Revolutionary Road con la traduzione di Adriana dell’Orto (I non conformisti, Bompiani, 1964) e revisione di Andreina Lombardi Bom. Seguono Disturbo della quiete pubblica nel 2004, traduzione di Mirella Miotti, Undici solitudini nel 2006, traduzione di Maria Lucioni e Easter Parade nel 2008, traduzione di Andreina Lombardi Bom. Perché questo migrare di traduttori per lo stesso autore?
È molto semplice: Revolutionary Road, Disturbo della quiete pubblica e Undici solitudini erano già usciti in Italia, quindi abbiamo preferito riutilizzare le traduzioni esistenti, rivedendole, piuttosto che commissionarle ex novo. Tutti i libri di Yates finora inediti in Italia verranno invece tradotti per noi da Andreina Lombardi Bom, un’ottima traduttrice che ha dimostrato di avere perfettamente nelle sue corde la scrittura e la sensibilità di Yates.
La prosa di Yates è secca e chirurgica. In quale romanzo la traduzione ti sembra più riuscita?
La traduzione che mi è piaciuta di più, e che ha richiesto meno interventi in fase di revisione, è quella di Easter Parade: forse perché Andreina Lombardi Bom aveva avuto modo di lavorare anche sugli altri libri di Yates, lo conosceva bene, e ha svolto questo lavoro con una consapevolezza e una passione tutta particolare. Inoltre, credo che in generale le traduzioni odierne dall’inglese americano siano più accurate di quelle di trent’anni fa perché il traduttore ha spesso una conoscenza migliore della cultura materiale del paese e della sua lingua viva, e grazie a internet ha a disposizione più mezzi per comprendere le espressioni in slang, le allusioni, ecc. che potevano mettere in difficoltà un traduttore degli anni ’60, il cui unico ausilio, in genere, era il normale dizionario.
Nel trovare l’equilibrio tra “lo svecchiamento della lingua” e la conservazione del suo “sapore storico”, minimum fax si affida alla sensibilità dei traduttori oppure avete direttive di cui potete parlarci?
Ci affidiamo alla sensibilità dei traduttori e dei revisori (dato che in moltissimi casi quelle dei minimum classics sono traduzioni già edite che rivediamo), senza dare direttive. Per tradurre Yates, ad esempio, una traduttrice come Andreina è più adatta di una traduttrice come me, perché la grandissima parte di quello che leggo e traduco sono opere scritte dagli anni ’80 in poi: sia in italiano che in inglese, è quella la lingua che ho nelle orecchie. Andreina, invece, ha un patrimonio linguistico e letterario un po’ diverso: più classico, meno postmoderno. Quindi io vado meglio, per dire, su uno come David Foster Wallace, e quando mi sono trovata a tradurre per Fandango I magnifici Amberson, un libro del 1918, ho fatto un po’ di fatica a creare una lingua che non fosse quella in cui penso e scrivo abitualmente.
C’è anche da dire che l’inglese di cinquant’anni fa è molto più simile all’inglese di oggi di quanto l’italiano di cinquant’anni fa sia simile all’italiano di oggi. La nostra lingua è invecchiata (o si è rinnovata) molto più rapidamente. Quindi il discorso è delicato: inserire, nella traduzione di un romanzo americano degli anni ’50, dei termini desueti, è in qualche modo «fedele» perché lo fa suonare al lettore italiano come un romanzo scritto diverso tempo fa e non ieri; d’altra parte, è in qualche modo «infedele» all’originale, perché introduce uno scarto rispetto alla lingua odierna che il lettore madrelingua di fatto magari non percepisce. Se nella traduzione italiana di un romanzo degli anni ’50 ci metto un «che figata» o un «porca puttana» mi sembra di commettere un errore, perché nell’italiano letterario di quegli anni queste espressioni non c’erano; ma in realtà, nell’originale americano magari c’è un «what the hell» tale e quale a quello che si trova in un romanzo di oggi. E analogamente, se infarcisco la traduzione di un romanzo degli anni ’50 di «ella» invece di «lei», «veduto» invece di «visto»”e quant’altro, il lettore italiano di oggi si ritrova davanti una lingua indebitamente straniata rispetto all’originale che è, in realtà, molto più vicino alla lingua corrente. L’ideale, probabilmente, è di non eccedere né in arcaismi né in neologismi.
Com’è cambiato il linguaggio degli italiani in questi 45 anni che ci separano dal ’64 quando Revolutionary Road venne pubblicato presso Bompiani come I non conformisti? Quale pensi che sia il giusto dosaggio per evitare l’anacronismo e al tempo stesso l’impoverimento della lingua italiana?
Il linguaggio degli italiani – ma soprattutto l’italiano della letteratura e dei mezzi di comunicazione – è cambiato moltissimo, specie per l’influenza della cultura pop americana e delle nuove tecnologie, e la trasformazione socioantropologica del ceto medio dopo il boom degli anni ’60 e la crisi dei ’70. Mentre, come dicevo, l’inglese è cambiato un po’ meno. Non ci sono ricette standard per ovviare a questo disallineamento. Per quanto mi riguarda, nel tradurre un libro di cinquant’anni fa eviterei gli «ella» e i «veduto» che suonano principalmente strambi al lettore di oggi e danno subito al romanzo una patina eccessivamente antiquata, terrei il «voi» di cortesia perché dà realismo all’atmosfera generale, eviterei i termini giovanilistici perché toglierebbero realismo... Bisogna vedere di caso in caso, ovviamente, non posso stabilire regole generali.
Da qualche parte che DiCaprio afferma: «Non ho mai interpretato un adattamento tanto fedele al romanzo quanto in questo film. E il libro si è dimostrato un’ottima fonte di risorse. I dialoghi diventano secondari, non è tanto importante ciò che diciamo nel film quanto il non detto, l’esitazione tra le parole, i silenzi, il linguaggio del corpo». Cosa ne pensi?
Concordo con DiCaprio sul fatto che non avevo mai visto un adattamento tanto fedele di un romanzo a un film. Non solo fedele, ma anche intelligente, perché il film ha saputo cogliere in profondità la ricchezza di atmosfere e sfumature del libro, non l’ha solo imitato superficialmente.