Buongiorno Adrián, ben ritrovato tra le interviste La Nota del Traduttore, questa volta parliamo del tuo romanzo L’inondazione (nottetempo, 2015), ambientato in Argentina, in un villaggio attraversato da un fiume che esonda. Non a caso possiamo collegarci all’attualità dei recenti fatti che hanno colpito l’Emilia Romagna con la più grande alluvione mai accaduta da un secolo a questa parte. Ci vorranno mesi e addirittura anni per riparare le imprese, le strade e le infrastrutture.
Lo scenario è simile a quello che hai raccontato nel romanzo?
Per certi aspetti sì, nonostante il paesaggio e la morfologia siano diverse. Nel paese e nella zona di cui parlo nel libro l’intervento dell’uomo non è ancora così drastico. È un luogo con molti alberi e tanti animali, abitato perlopiù da pescatori. In Emilia Romagna, invece, non ci sono spazi che non siano stati segnati dall’uomo, perciò, possiamo confermare, l’alluvione delle settimane scorse, oltre alla pioggia, è dovuto all’incuria e alla cementificazione spropositata del terreno.
Cosa ti ha portato a scrivere ispirandoti a una calamità naturale?
Sono nato a San Fernando, un quartiere di Buenos Aires, di fronte al delta del Paraná, anzi, nei bajos di San Fernando, in una vecchia casa accanto al fiume Luján, un affluente del Río de la Plata. Un fiume che si inondava spesso e ti costringeva a trovarti con un metro d’acqua dentro casa. Quando arrivava l’inondazione, che in famiglia chiamavamo crecida, mia madre mi metteva sopra il tavolo della cucina e mi lasciava lì mentre lei, mio padre e il resto della famiglia si adoperavano per tenere a bada l’acqua che arrivava dal fiume. Non ho molti ricordi di quel periodo, ma forse quel tavolo dove salivo è stato e rimane il mio vero paese, oggi in particolare, se dovessi dire qual è la mia vera patria, direi che è quel tavolo lì. Poi, quando avevo quattro anni circa ci siamo trasferiti. Comunque, forse è stata la mancanza di ricordi a spingermi a immaginare una storia piena d’acqua.
Dopo una catastrofe naturale è inevitabile cercare le responsabilità, persistere nella polemica tra poteri pubblici e aumento delle temperature. Nel romanzo L’inondazione il villaggio è attraversato da un fiume, si tratta di luoghi realmente esistenti oppure di fantasia?
La storia de L’inondazione è ambientata in un paese immaginario di nome Río Sauce, forse ispirato, per certi aspetti, alla Santa María onettiana. Un paese di pochi abitanti attraversato da un affluente del fiume Gualeguay, in Entre Ríos. Mi piacciono gli entrerrianos perché sono persone legate al fiume, con il loro tempo e la parlata lenta. Un giorno, all’improvviso, i suoi abitanti devono fare i conti con una grande esondazione. Tutti abbandonano la propria terra, racimolano le cose che riescono, alcuni mettono gli animali sulle barche o sopra le zattere, e partono verso altri posti, tranne un anziano, Morales, che decide di rimanere.
Nel romanzo, il protagonista Morales, mostra la sua tenacia a rimanere nella sua casa, nonostante tutto. Si trasferisce al primo piano, esce dalla finestra in barca, fa il giro del paese guardandolo da una prospettiva nuova, dall’alto. Si orienta costeggiando le cime degli alberi. Tutti gli altri sono fuggiti, si sono trasferiti altrove, lui invece aspetta che l’acqua scenda del tutto. Morales non manca di coraggio e di ironia. Quanto gioca l’aspetto degli affetti in situazioni simili?
Effettivamente, quello che lega Morales alla sua terra sono gli affetti: ferma la barca sopra la tomba della moglie e della figlioletta dopo aver preso le coordinate giuste, e si mette a parlare con loro, raccoglie i giocattoli del figlio o altre cose che vengono a galla, piccole cianfrusaglie, gira per le strade con la barca come se andasse a trovare i vicini che non ci sono. A legarlo non è l’identità, parola insidiosa che guardo sempre con sospetto, perché l’identità esclude, settarizza, crea frontiere d’appartenenza. Quindi, preferisco parlare di affetti, come hai fatto tu, piuttosto che d’identità. Gli affetti uniscono, aprono le relazioni, ti legano ai posti non attraverso l’identificazione; e poi, aggiungo, creano relazioni “fraterne”. È l’idea di radice unica, atavica, che trovo improponibile. Invece gli affetti sono come quelle radici rizomatiche che stanno in superfice e si estendono in orizzontale, abbracciandone altre.
Come spiegheresti a noi lettori la personalità di Morales?
Morales è un uomo semplice, legato ai suoi affetti, come dicevamo, e alla sua terra. Sa, è consapevole, che il legame presuppone anche la fatalità. Per lui una catastrofe naturale fa parte della vita di un posto, per questo accetta l’inondazione e decide di convivere con questa, nonostante le difficoltà. È una presa di posizione molto diversa a quella che in genere stabiliamo noi con gli spazi, per cui abbiamo una visione un po’ utilitaristica delle cose. Dunque, gli basta una barca, un bricco dove riscaldare l’acqua per prendere il mate e poco altro.
A un certo punto entrano in scena gli yacaré, sorta di grandi alligatori che spuntano dall’acqua e si nascondono nelle case abbandonate tra cui quella di un suo amico, Nicopoli che come tutti gli altri ha lasciato il posto. È un riferimento alle grandi conseguenze sanitarie di un’alluvione?
In parte sì, credo che le alluvioni modifichino anche l’habitat degli animali. Entre Ríos è una regione acquitrinosa dove ci sono diversi yacaré, con cui è meglio non avere a che fare, e l’inondazione ha aperto gli spazi a questi predatori. Mi piaceva immaginare che Río Sauce si riempisse di alligatori e che Morales riuscisse a rinchiuderne uno in una stanza. Lui, vecchio cocciuto e solitario, asserragliato in soffitta mentre al pianterreno scorrazzano gli yacaré. Ogni tanto apre appena la porta e lascia un pezzo di carne cruda all’alligatore che ha intrappolato. Morales è consapevole che questi animali facciano parte di quel mondo e lo vivono con lo stesso diritto con cui lo vivono gli esseri umani. Anche nei Cuentos de la selva di Horacio Quiroga, che leggevo da piccolo, c’erano parecchi yacaré.
Nicopoli è un bulgaro fuggito dalla guerra, come anche il Turco. Oltre alle calamità naturali possiamo pensare a disastri di altro tipo. Nel tuo romanzo, come anche nella realtà, le catastrofi implicano un margine molto stretto nella scelta tra migrare e rimanere. Come per Nicopoli, che continua a migrare?
Dovunque in Argentina puoi imbatterti con qualche migrante arrivato da lontano. Nicopoli si era imbarcato a Genova alla fine della guerra per andare negli Stati Uniti, ma per sbaglio era approdato a Buenos Aires. Aveva vissuto in un quartiere vicino al delta del Paraná (nella stessa zona in cui sono nato io), convinto di trovarsi da qualche parte sul Mississippi. Poi, quando aveva cominciato a capire la lingua, si era accorto di essere finito laggiù in Argentina. Anche a Río Sauce, ho immaginato, ci sono molti migranti, ognuno con la sua storia e il suo vissuto.
Ne L’inondazione a un certo punto si parla di speculazione edilizia, c’è chi vuole comprare tutta l’area, nonostante sia inondata. Perché hai aggiunto questo particolare?
Perché in Argentina, e non solo in Argentina, da molto tempo esiste una grande speculazione edilizia e mi sembrava plausibile che qualcuno, pur sapendo che l’acqua prima o poi torna da dove è arrivata, voglia acquistare quei terreni a poco prezzo. Il neoliberalismo dell’epoca di Menen, forse tra i peggiori governi che l’Argentina abbia avuto, ha creato una speculazione pazzesca. Perciò, non è difficile immaginare che qualcuno voglia mercanteggiare con la sofferenza e il disagio degli altri.
Morales rimane attaccato alle sue cose, riconoscendo alla fine che è proprio delle tante cose che bisognerebbe disfarsi soprattutto nelle emergenze e mettersi in salvo: “(…) prima o poi è bene che uno cominci a disfarsi di tutto (…)”. Potrebbe essere questa una chiave di lettura de L’inondazione?
Certo, può essere una chiave di lettura, perché sono le calamità a farti prendere coscienza del nostro attaccamento superfluo alle cose, spesso del tutto inutili. Una delle cose che Morales salva dall’acqua è il mate, compagno fedele di tutti gli argentini, e poco altro. Anch’io, se dovessi trovarmi nei suoi panni, salverei poche cose: giusto il mate e la bombilla, il Don Chisciotte, i diari di Kafka e la sveglia, per avere il piacere di buttarla via lontano in mezzo all’acqua.