Intervista a Stefano Rosatti, traduttore dall'islandese

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 14 novembre 2024

Qual è stato il suo percorso di studi che lo ha portato a specializzarsi nella lingua islandese?

In realtà io non sono “specializzato” in lingua islandese. Il mio campo di specializzazione è la letteratura italiana dei primi del Novecento. Più che quello di studi, è stato il mio percorso di vita ad avermi portato in Islanda. Vivo a Reykjavík dal 1997, mia moglie è islandese e i miei due figli sono nati qui. La mia conoscenza dell’islandese deriva dal fatto che appena approdato sull’isola ho cominciato a studiare la lingua. Nella capitale già all’epoca erano presenti molte scuole private che insegnavano islandese come lingua seconda, quindi a stranieri. Io ho completato due corsi in queste scuole e poi mi sono iscritto a islandese all’Università d’Islanda (allora il corso si chiamava proprio islandese “per stranieri”). Non ho completato il triennio perché nel frattempo, sempre presso l’Università d’Islanda sono stato assunto al Dipartimento di italiano della Facoltà di lingue e ho cominciato a insegnare. Ufficialmente ho dedicato quindi tre anni allo studio dell’islandese, tre anni molto utili. In seguito la mia conoscenza della lingua è andata di pari passo a quella della cultura e della letteratura, poi si è sviluppata con il progressivo inserimento nella vita sociale e lavorativa, con le tante amicizie coltivate e così via.

Con il tempo ogni lingua si evolve e cambia, quali sono i fattori che fanno regredire una lingua fino a estinguerla?

Si tratta di fattori vari e spesso molto complessi che richiederebbero una risposta molto lunga e articolata. Ma diciamo così, che una lingua (parlata o scritta) è espressione di un gruppo sociale e che la scomparsa o l’indebolimento di tale gruppo porta alla scomparsa o all’indebolimento della sua lingua. Ora, la scomparsa o l’indebolimento di un gruppo sociale è determinato da eventi sempre caratterizzati da un certo grado di violenza: il caso estremo è il genocidio (quello perpetrato nei confronti delle popolazioni native delle Americhe è forse l’esempio più eclatante, ma nella storia del genere umano non certo l’unico). Esistono poi circostanze nelle quali una lingua non viene più trasmessa ai discendenti perché considerata dai parlanti poco utile o poco dignitosa o addirittura dannosa per il futuro dei propri figli. Si tratta di circostanze certo meno cruente e nefaste rispetto al genocidio, però anche in questo caso il fenomeno reca in sé forme di sopraffazione o di prevaricazione, nel senso che i gruppi di parlanti che decidono di non trasmettere più la propria lingua alle generazioni successive lo fanno perché condizionati o influenzati da pressioni esterne, ovvero esercitate da gruppi di parlanti un’altra lingua. E queste pressioni sono sempre determinate da una combinazione di fattori politici, ambientali, economici e sociali. Nel romanzo Eden, la protagonista, che è una linguista, afferma che, secondo studi recenti, più o meno la metà delle circa settemila varietà linguistiche oggi esistenti si estinguerà entro la fine del nostro secolo. Io vorrei rilevare una questione anche più allarmante, e cioè il fatto che le lingue parlate come idioma nativo da circa l’88% della popolazione mondiale sono più o meno duecento. Questo significa che le restanti 6800 lingue (numero che va considerato per difetto) sono usate solo dal 12% degli abitanti della Terra. Da tale rapporto si può intuire come la stragrande maggioranza delle lingue esistenti sia a fortissimo rischio di estinzione ben prima della fine del XXI secolo. E l’estinzione anche di una sola lingua significa estinzione di una cultura nel senso più profondo e totale del termine. I vocaboli e le espressioni di una lingua legata da secoli a un determinato territorio, infatti, esprimono non solo un patrimonio di conoscenze “storiche”, ma anche una forma di sapere strettamente interrelata a biologia, natura, ambiente.

Come si tutela una lingua minoritaria?

Come ho detto, ciò che determina l’indebolimento di una comunità e della lingua da essa parlata è sempre una combinazione di fattori politici, ambientali, economici e sociali. Dunque una lingua minoritaria si tutela adottando politiche ambientali, economiche e sociali atte a preservarla. Facile dirlo, non sempre facile farlo. Il primo passo della comunità dei linguisti che si occupano di questi problemi è ovviamente la mappatura, o catalogazione, delle lingue minoritarie o a rischio. Questo è già un lavoro enorme, ma lo si sta facendo. Negli ultimi decenni si è anche assistito a un forte incremento nella produzione di materiali didattici, grammatiche e quant’altro, inerenti a lingue minoritarie. Tutto ciò è molto importante, però il lavoro fondamentale, e anche il più arduo, per i linguisti è quello di sensibilizzare, responsabilizzare, mobilitare, riaffermando l’importanza cruciale che ogni lingua riveste per la comunità umana. Studi recenti hanno messo in evidenza la stretta correlazione esistente tra biodiversità ecologico-ambientale e diversità linguistica. Dunque preservare la biodiversità di molti luoghi del pianeta potrebbe aiutare a preservare allo stesso tempo le comunità che vi abitano e dunque anche le lingue che tali comunità adottano. Detto questo, è chiaro che in ultima istanza sta poi alla politica adottare leggi che favoriscano la preservazione e perché no la ri-diffusione delle lingue più a rischio. Certo, se le dinamiche economiche continueranno a dettare linee e orientamenti politici, anche per le lingue minoritarie sarà vita dura.

L’islandese può essere considerata una lingua in via di estinzione?

I parlanti islandese che risiedono in Islanda sono meno di 400.000. Si tratta di un numero esiguo? Certo lo è se facciamo un confronto con l’Italia, dove gli italofoni sono circa 60 milioni. Ma io credo che esistano diverse valide ragioni per non temere che l’islandese sia una lingua in via di estinzione. Intanto si tratta di una lingua nazionale. Quindi tutto l’apparato economico, legislativo, politico, amministrativo relativo allo Stato è espresso in islandese e già solo questo rappresenta un patrimonio linguistico vasto e solido. In Islanda inoltre, uno degli elementi di maggiore orgoglio e di grande coesione culturale è senz’altro rappresentato dalla tradizione letteraria. Le saghe sono patrimonio inscindibile dell’isola e non tutti sanno che sono numerosissime, anche se le più conosciute internazionalmente sono forse non più di tre o quattro. E le saghe, nel loro insieme, vengono qui chiamate proprio saghe “degli islandesi”, a rimarcare il fatto che si tratta di un tesoro letterario appartenente a tutta la comunità dei parlanti e dei lettori di lingua islandese. Dopo aver letto la traduzione italiana di Eden, alcuni lettori mi hanno chiesto se la Commissione islandese per i nomi di persona esista veramente oppure se sia una trovata dell’autrice. Confermo che la commissione esiste, così come esiste una commissione che si occupa di “islandesizzare” i termini tecnico-specialistici, per la maggior parte inglesi, che sempre più numerosi si diffondono nelle varie lingue nazionali un po’ in tutta Europa. Questo fatto delle commissioni linguistiche può apparire certo spiritoso, ma è indicativo di come in Islanda la preservazione e la valorizzazione della lingua nazionale siano prese in seria considerazione anche dagli apparati istituzionali. Se l’islandese non è a rischio di estinzione si nota però, questo sì, un impoverimento espressivo della lingua soprattutto nei parlanti giovani o giovanissimi. Ma credo che si tratti di una tendenza comune a molti paesi occidentali, Italia compresa e una tendenza non recente, se già all’inizio degli anni Sessanta Pasolini metteva in guardia appunto contro il pericolo dell’impoverimento espressivo dell’italiano. Anche in questo caso le cause sono varie e complesse, magari ne parleremo in un’altra occasione.

Quali lingue vengono maggiormente insegnate in Islanda?

A partire dalla quarta classe della scuola elementare si comincia a insegnare inglese e in settima si comincia con il danese (l’Islanda è stata colonia danese fino al 1944). In passato, chi al liceo sceglieva l’indirizzo linguistico poteva studiare altre due lingue a scelta fra spagnolo, tedesco e francese. Oggi le scuole sono più autonome e adattano le lingue di insegnamento al “mercato”, per cui se in un liceo si ha ad esempio una forte richiesta per lo studio del giapponese, il preside può decidere di adottare l’insegnamento di quella lingua, anche solo per uno o due anni. In ambito accademico invece, e mi riferisco al Dipartimento di lingue e culture straniere dell’Università d’Islanda, dove lavoro, le lingue insegnate sono quattordici.

Quali sono i generi letterari più diffusi in Islanda?

Direi le biografie. Questo per tradizione. Gli islandesi sono sempre stati un popolo fortemente alfabetizzato e molti ancora oggi, pur non essendo scrittori di professione, amano narrare delle proprie origini, della famiglia, dei genitori, dei nonni o dei bisnonni. Non so bene perché, forse l’aver vissuto per secoli quasi del tutto isolati dal resto del mondo ha portato e porta a scrivere per tenersi ancorati almeno alla certezza delle parentele e degli affetti, chissà. Comunque è un fatto che ho sempre trovato interessante e anche affascinante. Gli islandesi scrivono e leggono molto. Anche questo è un motivo per non preoccuparsi più di tanto dell’estinguersi della loro lingua. L’altro genere che ancora va per la maggiore è il giallo o il noir scandinavo. Oggi poi, come si racconta in Eden, anche diversi politici islandesi di spicco si sono messi a scrivere. Soprattutto polizieschi.

Quali sono gli autori islandesi più noti all’estero?

Ovviamente devo citare per primo il premio Nobel Halldór Laxness. Anzi, colgo l’occasione per invitare chi non lo conosce a leggerlo. Cominciando da Gente indipendente, un capolavoro assoluto della letteratura del Novecento, tradotto con maestria da Silvia Cosimini. Auður Ava Ólafsdóttir è una star letteraria in Francia, dove ha conquistato lettori e critica con il suo terzo romanzo, Rosa candida. Auður ha comunque un suo pubblico fedelissimo anche in Italia. Quanto a successo in termini di vendite, credo che Arnaldur Indriðason sia di gran lunga il primo scrittore islandese in assoluto. È un autore di noir ambientati in Islanda e ha successo soprattutto in Germania. Tra gli altri scrittori contemporanei noti all’estero citerei Jón Kalman Stefánsson, Ragnar Jónasson, Hallgrímur Helgason, Guðbergur Bergsson, Yrsa Sigurðardóttir (altra scrittrice di gialli, o noir), Einar Kárason, Einar Már Guðmundsson, noto soprattutto in Danimarca e molti, molti altri.

Come lavora con i suoi editori? Nel caso in cui l’editore italiano non conosca la lingua islandese, è lei a fare da scout, a proporre le novità che le sembrano più interessanti?

Io ho tradotto solo per Einaudi. È chiaro che essendo una grande casa editrice abbia una sua precisa linea editoriale e anche determinati tempi ed esigenze organizzative, quindi è raro che sia io a proporre qualcosa a loro, piuttosto avviene il contrario. Ho ricevuto invece proposte di lettura di romanzi islandesi da altre case editrici italiane. Di solito i romanzi che mi propongono di leggere sono buoni e dunque le mie schede di giudizio sono spesso positive, ma alla fine non se n’è mai fatto nulla.

La protagonista di Eden, Alba, è specialista in lingue in via d’estinzione come la sua stessa lingua, l’islandese. Alba, ragiona molto di etimologie e fatti linguistici, ci racconta per esempio che ogni venerdì c’è una lingua che si estingue. Con esse immaginiamo che si estingua dunque una certa cultura e un certo modo di pensare. Crede che sia un messaggio che la scrittrice abbia voluto dare ai suoi lettori?

Certamente. In Islanda il dibattito sulle lingue minoritarie è per ovvi motivi molto sentito e dunque la scelta di Ólafsdóttir di avere come protagonista del romanzo una linguista che si occupa di tali fatti è decisamente attuale. Ma in Eden non c’è solo questo: come si è già detto, il problema dell’estinguersi di una lingua ha radici profonde e conseguenze culturali gravi che in un certo senso toccano tutti noi in quanto appartenenti al genere umano. Però la questione del frequente estinguersi delle lingue è solo una parte del problema, il quale non è così distinto, per esempio, da quello dello sfruttamento indiscriminato di territori più o meno vasti e delle loro peculiari risorse naturali. L’Islanda forse, nell’immaginario di chi non ci vive, possiede ancora una certa aura di luogo puro e incontaminato, in realtà nemmeno questo posto splendido è esente dal depauperamento delle risorse, e nel romanzo se ne parla. I libri di Ólafsdóttir cercano di dirci che tutto è connesso, insomma, oggi ancora di più perché il pianeta su cui viviamo si è fatto sempre più piccolo, quanto a distanze e interrelazioni. E ce lo dicono sempre con delicatezza e ironia, qualità che rappresentano la cifra stilistica più evidente di questa scrittrice.

Attraverso l’impegno di Alba a piantare alberi, Eden mostra una visione oltre che distruttrice soprattutto riparatrice su ciò che sta per estinguersi. Questo può essere considerato un filo conduttore nei romanzi dell’autrice?

Assolutamente sì. Ma non direi che i romanzi dell’autrice contengano dei messaggi esplicitamente positivi o positivi nel senso convenzionale del termine. I protagonisti, nel loro agire, proprio nelle cose che decidono di fare, apportano certamente dei benefici a se stessi e alla comunità che li circonda. Ma questo avviene loro malgrado. In un certo senso, cioè, sono gli intralci, le complicazioni, le difficoltà o i disagi delle loro vite quotidiane che li portano quasi per forza ad operare dei cambiamenti radicali e definitivi. Una volta che tali cambiamenti sono messi in moto, dato che non c’è modo di tornare indietro i personaggi vanno avanti impegnandosi e facendo del loro meglio per aiutarsi e per aiutare. Ma non si tratta né di eroi né di anti-eroi, si tratta sempre di “tipi” decisamente comuni. A me piace proprio il loro basso profilo, ovvero il modo molto piano, molto normale di andare per la loro strada senza farsi distogliere o condizionare più di tanto dalle opinioni altrui.

Questo romanzo fa riflettere inoltre sul fatto che nei paesi nordici come l’Islanda sebbene la letteratura dei gialli sia il genere trainante e da esportazione, esiste anche una letteratura florida negli altri generi della narrativa?

Certo il genere poliziesco, o giallo, o noir è ancora molto in voga in molti paesi europei. Nella stessa Islanda ogni anno viene pubblicato un gran numero di romanzi islandesi di questo tipo. Però se guardiamo agli scrittori islandesi più noti all’estero che prima citavo, solo Indriðason e Sigurðardóttir in effetti sono autori di gialli (o noir), tutti gli altri no. Solo questo fatto credo possa rendere l’idea di quanto il panorama della narrativa islandese, pur nel suo piccolo, sia variegato e multiforme.