Intervista alla scrittrice Amélie Nothomb

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 10 maggio 2011

Parliamo della corrispondenza tra Amélie e i suoi lettori. Ogni tanto vado a trovare Amélie nel suo studiolo da Albin Michel, vedo le numerose lettere che riceve e alle quali Amélie, nelle interviste, dice di rispondere.

È vero che rispondi a tutte le lettere?

I giornalisti hanno sempre tagliato l’ultima parte della risposta: rispondo a ogni lettera «che lo merita». E sono tante, ho calcolato che ogni lettera «che lo merita» produce i 4/5 della posta. Un’enormità.

Quante lettere ricevi mensilmente?

Se dovessi mettermi a contare mi sparerei. Preferisco non contare.

Cosa intendi per ogni lettera «che lo merita»?

È effettivamente una questione piuttosto ampia. Intendo dire che ogni lettera degna, interessante, educata, umana, merita una risposta. Metto sullo stesso piano la lettera di chi non ha mai letto un libro e la lettera dell’intellettuale. L’unico mio criterio è il rispetto verso un minimo di gentilezza e interesse. Una persona che mi scrive senza un particolare interesse è una persona che vuole farmi perdere tempo, a quella persona non rispondo. Ma questo è molto raro, non ricevo quasi mai lettere del genere. L’immensa quantità di lettere che ricevo sono davvero degne d’interesse.

E quali sono le lettere che finiscono nel cestino?

Le lettere con insulti. E anche le lettere di persone che mi chiedono una foto di me nuda.

Tra questi tuoi corrispondenti ci sono degli aspiranti scrittori?

È verissimo e in ogni fascia della popolazione. Dal quindicenne senza ortografia, e lo dico senza ironia perché trovo che sia una cosa molto bella, al novantenne che vuole diventare scrittore.

Tutta questa corrispondenza è una grande commedia umana…

È straordinario. Sono tante le persone che mi scrivono e mi ritrovo mio malgrado al centro di una strepitosa commedia umana che non avrei mai potuto immaginare.

Da questo osservatorio privilegiato cerchi il giusto equilibrio tra intimità e distanza. In un momento così complicato della storia, cosa pensi delle difficoltà della gente?

È vero, stiamo vivendo un’epoca estremamente travagliata. Ciononostante è l’unica che conosco e mi chiedo come sarebbe stato se fossi vissuta un secolo fa, se avrei ricevuto così tante lettere, se sarebbero state così tragiche quanto quelle che ricevo. Chi può dirlo? Quello che posso dire è che in queste lettere la gente si confida molto, e quello che noto di più è la loro solitudine. È di questo che la gente si lamenta e mi scrivono perché si sentono soli. Non si tratta, come magari si potrebbe pensare, di persone che vivono in campagna, al contrario, vivono nella grande città, a Parigi. È incredibile. E per l’appunto, calandoci nel romanzo, il protagonista è malato di solitudine ed è questo che lo spinge a rivolgersi a te, all’Amélie Nothomb letteraria. Melvin Mapple, il soldato americano di stanza in Iraq, è un personaggio inventato. Si potrebbe dire, a priori, che non è solo, che è nell’esercito americano e che pertanto non vive in uno stato di solitudine. Paradossalmente soffre di solitudine. Perché? Lo si scopre molto presto, perché è obeso e questo lo allontana dagli altri. C’è un bastione di grasso tra lui e gli altri e anche un bastione di disprezzo. E Melvin è convinto che scrivendomi si sentirà compreso e apprezzato.

Anche il tuo primo grande personaggio è stato un obeso, nel romanzo Igiene dell’assassino. Si tratta di un ritorno all’obesità? Qual è la differenza tra questi due obesi?

Se calcoliamo bene ci sono quattro obesi nei miei libri, in Igiene dell’assassino, poi la coppia di obesi nelle Catilinarie e adesso Melvin Mapple. Sono molti effettivamente, ma sono personaggi che mi affascinano. Abbiamo tendenza a dire che una persona grassa è generalmente buona, divertente, che ti dà una pacca sulla spalla. Non ho assolutamente questa opinione degli obesi. Al contrario, li ritengo misteriosi poiché si nascondono in una cittadella di grasso. Rifiutano la trasparenza. Oggi, essere magri è un’ideologia, e dobbiamo dire tutto di noi. Gli obesi restano nel mistero e li trovo molto interessanti. Dalla pubblicazione di Una forma di vita ricevo moltissime lettere da parte di persone obese. Questo conferma la mia idea: sono persone interessanti e in uno stato di straordinaria solitudine.

Sei d’accordo nel dire che l’anoressia è una malattia dall’altra parte dello spettro rispetto all’obesità? Secondo te, queste due forme hanno qualcosa in comune o sono tanto opposte quanto appaiono?

Le vedo esattamente come la stessa malattia. Sono la stessa vertigine, nel senso che spingono la persona a cercare un limite e ad andare oltre. In entrambi i casi c’è la stessa solitudine. E un altro punto in comune tra le due è il rapporto problematico con il proprio corpo, non si sa più cos’è il corpo, non si ha più coscienza del proprio corpo, e si ha l’impressione di poterne fare qualsiasi cosa.

Qualche giorno fa a Parigi ho intervistato l’autrice dei Monologhi della vagina, e nel suo nuovo libro che è dedicato alle adolescenti c’è un monologo in cui una ragazza cinese costruisce la testa della Barbie e individua nella Barbie il male, perché la Barbie è il modello di donna perfetta, magrissima, senza curve. Forse corrisponde al modello che ci viene inculcato dalla pubblicità e dal cinema fino a far cadere in queste forme di vertigine?

C’è sicuramente la vertigine della perfezione, cosa che non ho mai vissuto. Ho però conosciuto molte ragazze terrorizzate per voler essere perfette. In realtà sono perfette ma loro non si vedono così e vivono di complessi. Conoscendo esattamente i loro piccoli difetti e la differenza rispetto alla norma. Bisogna vedere cosa intendono per differenza, perché è proprio qui che diventa senza fine. Questo conferma il fatto che oggi viviamo in un’epoca in cui è molto raro saper abitare il proprio corpo.

Nella corrispondenza tra Amélie letteraria e Melvin c’è un riferimento che ogni tanto ritorna nei tuoi libri e riguarda la giusta distanza che bisogna trovare tra due persone. Se questa distanza non si trova, i rapporti sono destinati a interrompersi. Sia in amore sia in amicizia. Riesci a porre la giusta distanza anche nella corrispondenza?

Una delle ragioni per cui mi piace la corrispondenza cartacea è il fatto che pone d’emblée quello che dovrebbe sempre esserci tra due persone, cioè la giusta distanza. Con questo non voglio dire che sono una persona distante e chi mi conosce lo sa. Quando ero adolescente volevo abbattere ogni distanza, pensavo alle relazioni fusionali, assolute, ed è stato un disastro. A furia di sperimentare disastri ho capito che anche quando si ama qualcuno è comunque importante che ci sia una distanza. Inoltre, con il tempo ho capito che più si ama una persona e più questa distanza è necessaria. Con il carteggio, a priori, è semplice, c’è già una prima frontiera, la più evidente, la frontiera della carta. È già una sicurezza. Ma per esperienza, avendo corrisposto con molti lettori per molti anni, so che c’è sempre qualcuno che si rende invadente, anche attraverso la carta. Bisogna stare in guardia. Non sono una persona diffidente, ma piuttosto straordinariamente ingenua e ho vissuto storie di carta incredibili. Davo il mio indirizzo privato a chiunque, ho commesso errori a non finire e con il tempo sono diventata un po’ più prudente. Per questo credo che alla base della verità umana ci sia l’importanza delle frontiere, della distanza, e non è mai la stessa da persona a persona. Questo fa subito pensare alle guerre: non appena c’è una frontiera, c’è inevitabilmente una guerra.

Il fatto che tu sia diventata scrittrice nasce da un difficile rapporto con una corrispondenza primaria, quando tua madre ti costringeva a intrattenerti con tuo nonno a Bruxelles. Avevi l’incubo della pagina bianca sulla quale non sapevi cosa scrivere…

È assolutamente vero. I miei genitori erano diplomatici, per cui sono nata in Giappone, ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in Estremo Oriente e i miei parenti erano rimasti a Bruxelles. Da quando avevo sei anni, i miei genitori mi hanno sempre obbligata a scrivere una lettera alla settimana a mio nonno, che non conoscevo. Per me era insopportabile, mi davano un foglio bianco da riempire. E fu così che per anni ogni domenica sera ho conosciuto l’angoscia, l’incubo della pagina bianca. È per questo che scrivevo con caratteri enormi e nonostante ciò la pagina non era mai piena. Questa corrispondenza è andata avanti dai sei anni fino ai diciassette e col passare del tempo ho imparato a trovare tutto questo meno sgradevole, era diventato un esercizio intellettuale piuttosto affascinante, ma questo a partire dagli undici anni, e credo che abbia giocato un ruolo nel fatto che sia diventata poi scrittrice. Quando avevo sei anni dicevo a mia madre «cosa posso scrivergli, non ho niente da dirgli» e lei mi suggeriva «raccontagli della scuola», e mi ricordo che già a sei anni pensavo che non potevo raccontare della scuola perché non era interessante, innanzitutto per me, figuriamoci per il nonno. Ma avevo già la preoccupazione di scrivere qualcosa che potesse risultare interessante per qualcuno.

Il nonno rispondeva alle lettere? (domanda dal pubblico)

Sì, mio nonno rispondeva alle lettere e c’era da apprezzarlo perché anche mio fratello e mia sorella gli scrivevano, per cui ogni settimana lui scriveva tre lettere. Onestamente non so come facesse perché ricordo bene che erano banali, del tipo «sto bene, mangio bene», e lui riusciva a rispondere a queste cose.

In questo romanzo hai dovuto inventare un personaggio, un soldato, che è in guerra, che è obeso, che usa la sua obesità contro il sistema, che la usa come forma di ribellione verso questa guerra ingiusta, che ha una forma di autoerotismo perché considera i chili in più come una donna. È un personaggio sul quale hai lavorato molto?

È una delle meraviglie della scrittura. Volevo scrivere di un soldato obeso e volevo davvero conoscerlo e quindi l’ho inventato. Ma a furia di farlo parlare ho avuto l’impressione di diventare lui e mi ha detto delle cose che non avrei potuto immaginare. Per esempio, Sherazade, l’ho vista delinearsi mentre scrivevo. Chiunque può immaginare che essere obesi debba essere infernale. E lui stesso mi ha raccontato che sì, l’obesità è un inferno, ma di notte è meraviglioso. Di notte, tutto questo grasso, questa carne che lo avvolge, diventa una donna che lo stringe tra le braccia. Naturalmente non può confidare questo agli amici soldati perché siamo nell’esercito. È proprio creando il personaggio che ho avuto questi suggerimenti. Qui c’è anche un altro tema molto ricorrente, quello del doppio. In questo caso è proprio fisico, un personaggio che contiene un altro personaggio.

Visto che prima si parlava di solitudine, ciò che attrae di questo personaggio nei confronti di Amélie è il fatto di avere un interlocutore che ascolta e risponde. E l’ascolto è qualcosa di raro oggi. Poi c’è il fascino della corrispondenza cartacea, quindi non l’email, ma carta e penna. Sei un po’ come un dinosauro…

Completamente. Un dinosauro belga. E piace moltissimo alle persone, e non saprei se le persone avrebbero manifestato così tanto entusiasmo se fosse stata questione di email. Quello che posso dire delle email è che non fanno per me. Non si riesce a dire le stesse cose rispetto al cartaceo, scrivere email equivale a buttare giù delle frasi qualsiasi in qualsiasi modo, non è una modalità preziosa, è un modo di comunicare che non mi piace. Quando si prende un foglio, una penna e una busta, di colpo il messaggio cambia ed è per questo che la trovo una modalità che mi si addice profondamente.

Da questo libro trapela anche un po’ del tuo rapporto con gli Stati Uniti che hai già raccontato in Biografia della fame. Nei lunghi anni in Oriente con i tuoi genitori hai trascorso un periodo a New York, è stato un periodo folgorante. In questo libro c’è anche un grande apprezzamento per l’America di Obama. Oggi cosa pensi degli Stati Uniti?

Qual è il tuo rapporto con questo paese? Adoro gli Stati Uniti. Ci sono andata per la prima volta a otto, dieci anni e questo ha contato molto nella mia vita. Ricordo bene che prima di andare negli Usa ero molto diffidente, mi facevano paura, un po’ come a tutte le persone che non ci sono mai state. E invece ho scoperto che c’è un entusiasmo americano che è formidabile e che mi ha contaminata. Poi ho trascorso lunghi anni senza mai tornarci, oggi ci torno regolarmente e ogni volta ritrovo questa sensazione. Naturalmente non propongo gli Usa come modello di società, ma c’è una sorta di semplicità che fa molto bene. Sento il bisogno di andare negli Usa e adesso finalmente ho cominciato a leggere più letteratura americana, una letteratura che ho scoperto molto tardi e che ha molto da dire.

Per non svelare niente del finale, si può dire che forse in questo finale c’è un desiderio di annientamento. È qualcosa di autentico oppure è una trovata?

È un desiderio profondo questo bisogno di trovare una via d’uscita, una via di fuga. Forse mi dirai che è un fallimento, perché si ripete a ogni mio romanzo. Ma in modo irrazionale sono convinta che la via d’uscita si trova nella scrittura.

Se Amélie Nothomb non fosse la scrittrice che oggi è qui da Feltrinelli, che ogni anno scrive un libro, chi sarebbe o chi vorrebbe essere?

Me la sono fatta spesso questa domanda. Non ci sono molte possibilità, l’unico altro mestiere che avrei potuto fare è la panettiera, perché abbiamo gli stessi orari.