Autore:
David Albahari / editore: Zandonai, 2010
Pubblicazione:
19 dicembre 2010
Ludwig è il quarto romanzo del romanziere serbo David Albahari che ho tradotto. Qui, forse più che negli altri casi, la sfida maggiore è consistita nel trovare il ritmo della frase, anzi del lungo monologo della voce narrante, che, come in tutti i romanzi più recenti di David Albahari, inizia alla prima pagina e finisce all’ultima. Senza un a capo. Ma anche senza una forzatura, o un momento di stanca. Certo, quel fittissimo periodare privo di pause, che rappresenta l’aspetto formale più appariscente, può impensierire un traduttore per possibili problemi di scorrevolezza, o allarmare un lettore che tema di rimanere in secca nel bel mezzo di quella tirata. Non è così. Il tono confidenziale del monologo, il registro quotidiano e la sulfurea ironia che pervade il testo alleggeriscono quell’unico periodo, e l’estrema perizia con cui l’autore calibra il contrappunto delle scene e l’alternarsi delle emozioni, permette di calarsi con passione nelle vicende di S, la voce narrante, che cerca di fare i conti con il suo carismatico collega scrittore Ludwig, che ne ha tradito la generosa amicizia “appropriandosi” di un suo libro. Assieme a questa, eterna, questione d’amore e di tradimento, due sono i temi su cui ossessivamente rimugina S: l’originalità e la proprietà della creazione letteraria, e il provincialismo della città di Belgrado, assurta qui allo status di personaggio, sedicente metropoli dall’anima gretta, pronta ad adorare i vincenti e a schiacciare i perdenti, una città dove non si può vivere, ma che non si può neppure lasciare.
Partendo da un plagio (reale o presunto), in Ludwig, Albahari propone ancora una volta la sua riflessione sulla scrittura e sul mestiere dello scrittore, come già nei romanzi Zink e L’esca, non più da una prospettiva autobiografica, ma non senza una partecipazione emotiva. Infatti, malgrado l’evidente inaffidabilità del narratore S, che rende opinabile la reale sussistenza del furto del suo “libro dei libri”, e malgrado l’atmosfera tragicomica di gran parte degli episodi, è evidente l’empatia con cui sono descritti i contradditori sentimenti di S e il progressivo declino della sua mente sconvolta dalla gelosia e dall’odio-amore per il suo Lu. Il monologo, che procede attraverso un alternarsi di idee fisse, digressioni, episodi remoti e recenti che riemergono cambiando via via significato, raggiunge il suo parossismo nell’immaginazione di un (reale o presunto) omicidio.
All’interrogativo: “Chi è Ludwig?”, nonché alle polemiche scatenate in Serbia dal tono satirico di questo romanzo verso l’ambiente belgradese e le sue aberrazioni ideologiche (e soprattutto dal sospetto di un romanzo a chiave), Albahari risponde, citando anche il suo modello, Thomas Bernhard: “Ludwig è chiunque […] Ogni scrittore porta in sé il suo Ludwig. Sì, Ludwig sono io! Ludwig è la città di Belgrado, ovvero, ogni grande città, in qualunque parte del mondo. […] Ludwig è stato scritto, innanzi tutto, in onore di Thomas Bernhard, grande maestro della prosa, del sarcasmo e dell’humor nero. Lui, naturalmente, criticava Vienna, e a quella immagine si ispira la mia illustrazione di Belgrado. Tale illustrazione è certo esagerata, ma solo così si vede ciò che si desidera mostrare. La Belgrado di Ludwig non è un riflesso della vera Belgrado, ma della città che, del tutto deformata, esiste nella coscienza del narratore, e il narratore, questo almeno si sa, non sono io. Quell’io è qualcun altro.”