La prima conoscenza con “Love and Vertigo” la feci per caso, mentre stavo preparando la mia tesi di laurea in letteratura post-coloniale all'università di Auckland, in Nuova Zelanda. Affascinato dal mondo dell'editoria, avevo iniziato ad avviare i primi contatti con alcuni editor italiani interessati a consulenze e suggerimenti su quella che mi era sempre sembrata (e continua ancora a sembrarmi) come la nuova frontiera della letteratura. Cercavo un editore per un romanziere australiano, che per aiutarmi mi aveva mandato le fotocopie delle recensioni della sua ultima opera. Accanto alle interviste e ai trafiletti dedicati all'autore c'erano interviste e trafiletti dedicati anche ad altri scrittori. E io leggevo tutto, alla ricerca di un'idea folgorante, della scoperta geniale ai margini della scoperta che avevo già fatto. Quasi avesse più meriti lo scopritore di un libro di colui che l'avesse scritto, colui che lo rendesse fruibile (impossibile non vedere un parallelo con il compito del traduttore, il quale fornisce al lettore che ne è sprovvisto gli strumenti per comprendere un testo altrimenti inaccessibile) che colui che l'avesse realizzato. Una di quelle recensioni ‒ c'è bisogno di dirlo? ‒ si riferiva proprio al romanzo di Hsu-Ming Teo. Qualche parola di elogio per l'opera prima di una scrittrice di origine malesiana, forse il primo esempio letterario significativo di un'area nota più che altro per le banche e la vegetazione lussureggiante. In realtà quello che lessi non mi attirò granché e lasciai stare, tanto da dimenticarmi tutto: del titolo, del nome impronunciabile dell'autrice. D'altronde anche questo episodio lo ricostruisco a posteriori: non mi sarei mai ricordato che avevo sentito parlare del romanzo già prima che me ne venisse affidata la traduzione se non avessi ritrovato ‒ per caso anche stavolta ‒ quella breve recensione. Evidenziata con un pennarello giallo: il segno di una ricerca. In quel momento Fazi mi aveva già affidato il compito di tradurre quello che sarebbe uscito con il titolo di “Amore e Vertigine”. L'opera prima di Hsu-Ming Teo è stata un’opera prima anche per me, la mia prima traduzione. Un lavoro in cui sono stato aiutato tanto dall’autrice che, di nuovo, dal caso. I mesi in cui ho tradotto il libro sono stati costellati da una serie di piccole coincidenze, interferenze tra la finzione del romanzo e la realtà che stavo vivendo, interferenze in alcuni casi divertenti in altre dolorose, che mi sono comunque servite a sciogliere dei nodi in cui mi ero imbattuto durante il lavoro. Scelgo un esempio: nel romanzo si parla di un unguento conosciuto come Tiger Balm. Mi ero sempre chiesto come fosse esattamente e un giorno, aprendo il cassetto di un comodino in casa di un amico di cui ero ospite, ne trovai una boccetta. Come se il traduttore, oltre a consultare grammatiche e vocabolari, dovesse costantemente osservare il mondo che lo circonda. Come se i libri ci facessero vedere quello che, se non l’avessimo prima letto su una pagina stampata, non avremmo mai visto. Parlo di me perché un libro ‒ per chi lo scrive, per chi lo riscrive traducendolo e per chi lo riscrive leggendolo ‒ è soprattutto un’esperienza. L’io conosce direttamente soltanto le proprie, mentre quelle degli altri le conosce indirettamente attraverso dei segni. E tra i segni un posto primario ha la parola. Interpretare la parola ‒ e quindi un libro- significa allora interpretare esperienze. Riviverle. La parola crea legami. È il ponte che unisce le isole che sono gli uomini, mezzo di avvicinamento e termometro della distanza. L’essere vicini e l’essere lontani è uno dei temi principali di “Love and Vertigo” ‒ “Amore e Vertigine”, un romanzo che parla di emigrazione e di sfaldamento dei rapporti famigliari. Per i protagonisti del libro l’Altrove è di volta in volta speranza e prigione. La famiglia lascia la Malesia per l’Australia, con Sydney che diventa il luogo dell’emancipazione ma anche dell’emarginazione e della solitudine. La famiglia che per sopravvivere ha bisogno del proprio spazio trova agli Antipodi uno spazio vuoto che non sa come riempire. Allo stesso modo l’Altro viene rincorso o diventa oggetto di fuga: la madre insegue il figlio scappando dal marito. A sua volta la figlia rincorre la madre e ne ricostruisce la storia partendo dall’assenza della morte. Come non notare la vicinanza - tanto fonica che semantica- tra Altro e Altro-ve. Una rivincita dell’italiano sull’inglese -che dice Other e Elswhere- nell’interpretazione del testo. Non è un caso che una delle scene più ricorrenti del romanzo ruoti attorno a quella che si potrebbe descrivere come un’interferenza tra l’Altro e l’Altrove: la violazione del proprio spazio, tanto simbolico quanto reale. I soldati che sfondano la porta del patio al momento della nascita della madre della narratrice; le irruzioni della suocera mentre la donna fa il bagno; l’ispezione a sorpresa in camera del fratello. Quello della vicinanza/ distanza non è però solo un problema dei personaggi ma anche dell’autrice e del traduttore. Il romanzo di Hsu-Ming Teo è infatti ricco di spunti autobiografici e affonda le proprie radici nel passato vicino e lontano, concluso e dunque definito, ma nello stesso tempo sfuggente ed elusivo. D’altra parte tradurre il romanzo ha significato muoversi in uno spazio estraneo perché ricco di riferimenti a culture così lontane da quella italiana: quella malese e quella australiana. Mi è sempre rimasto impresso quello che Susan Sontag afferma in uno dei suoi saggi: uno scrittore è una persona che si interessa a tutto. Allo stesso modo un traduttore deve sapere tutto quello che il "suo" scrittore sa. E così anch’io ho dovuto imparare che il roti prata è un piatto di pane fritto e curry e che, durante l’occupazione della Malesia, i giapponesi obbligavano le donne più giovani a prostituirsi. Questo almeno per quanto riguarda la cultura malese, che nel romanzo assume appunto le forme della Storia e della cucina, oltre a quella -fondamentale- di una società patriarcale. Nel testo affiorano inoltre con una certa frequenza termini cinesi, che di nuovo suggeriscono da una parte la vicinanza alle proprie radici, dall’altra l’impossibilità di sfuggire ad un destino scritto in un’origine. Per stilare il glossario fondamentali sono stati il sostegno e le indicazioni di Hsu-Ming Teo. Diverso il problema con la cultura australiana, un problema che conteneva in sé stesso la propria risoluzione. Amore e Vertigine descrive in termini d’intreccio il confronto con un mondo nuovo, un mondo che i personaggi e il lettore conoscono insieme passo dopo passo. Al momento in cui dalla Malesia ci si trasferisce a Sydney tanto i protagonisti che il lettore sanno poco della nuova terra. Sono sullo stesso piano, gnoseologicamente parlando, mentre fino al momento in cui la storia si svolge in Malesia tra i due soggetti c’è un divario, con i personaggi che ne sanno di più del lettore, dal momento che vivono nel mondo in cui sono nati e cresciuti. In questo senso il tema della migrazione crea parallelismi tra finzione e realtà. Lo scrittore accompagna il lettore passo dopo passo nell’esplorazione dell’Altrove attraverso i propri personaggi. E così l’Horlicks (una specie di Ovomaltina), la canzone Avanti Bella Australia, la ballata L’Uomo dell’Ironbark, non sono dati di fatto, ma simboli di un universo nuovo, da conoscere. Non solo: l’Australia sta alla Malesia come l’Occidente all’Oriente e dunque il trasferimento a Sydney rappresenta, almeno per un lettore italiano, il passaggio in un universo più vicino al proprio e per questo più comprensibile. A quel punto non servono note a piè di pagina: il libro si spiega da sé. Il traduttore può starsene in disparte. Tanto più vero se si pensa che la scoperta che i protagonisti di Love and Vertigo fanno della società australiana è anche linguistica, con i figli che imparano l’inglese e lo slang australiano allontanandosi dai genitori e i genitori che rimangono chiusi nel loro mondo e nella loro lingua. Significativo che la madre sprofondi nell’alienazione: non sa interpretare la nuova realtà che la circonda perché, non imparando l’inglese, non ha gli strumenti per farlo. Detto sinteticamente, tradurre Amore e Vertigine ha significato muoversi su mondi diversi, lavorare nel punto di scambio tra due universi. Concludo da dove avevo cominciato, con un’ultima coincidenza. Lo stesso giorno in cui mi è stato chiesto di scrivere un pezzo su cosa avesse significato tradurre Amore e Vertigine ho ricevuto un telegramma in cui mi si comunicava che avevo vinto una borsa di studio per l’estero. Che sarei diventato anch’io migrante. Che sarei andato in Australia, la terra di Amore e Vertigine. Che agli antipodi avrei insegnato la mia lingua, l’italiano, a degli anglofoni, come a ripetere il passaggio da “Love and Vertigo” ad “Amore e Vertigine”. Appena qualche settimana prima Hsu-Ming Teo mi aveva mandato una email in cui mi chiedeva se quest’anno avevo intenzione di andare in vacanza in Australia come le avevo detto che avrei voluto fare. Impegnato in un altro lavoro, non le avevo ancora risposto.