In Papegaai vloog over de IJssel, Kader Abdolah, scrittore persiano di lingua nederlandese, riunisce i due mondi in cui affondano le radici della sua anima: quello della lingua e della cultura persiana e quello della lingua e della cultura dei Paesi Bassi, in cui ha potuto rinascere a nuova vita.
Felice frutto dell’incontro tra vicenda autobiografica, racconto di invenzione e storia recente dell’Olanda, questo “romanzo meticcio” – ambientato tra il 1985 e il 2010, ovvero tra l’arrivo dei primi rifugiati e l’ondata migratoria che ha profondamente inciso sulla deriva xenofoba di parte della società olandese – ci parla di quel fenomeno antico e drammaticamente attuale quale è la migrazione: l’incontro-confronto di genti di lingua e cultura diverse, che, come avviene nel dipanarsi della storia, può dare vita a radicali contrapposizioni, scabrosi cambiamenti, reciproci arricchimenti, nascita di nuove comunità in cui convivono cittadini autoctoni, stranieri e nuovi nati color caffelatte, con nomi inediti, tradizioni multiple e gastronomie fusion. Protagonisti del racconto sono un pugno di rifugiati di religione musulmana, tra i primi ad arrivare, in Olanda, dove si stabiliscono in alcuni paesini sul fiume IJssel, in un’area di religione protestante. Descrivendo le loro vicende, le loro esperienze esistenziali, le loro lotte con la lingua olandese, le loro prese di coscienza e i loro sogni, il romanzo ci racconta tranches de vie – trasfigurati da un’immaginazione al limite del surreale – di una piccola umanità sofferente e tenace, di identità e alterità, sguardo ego- ed etnocentrico e prospettiva altrui, ma anche della possibilità di trovare compromessi preservando i fondamenti delle reciproche identità, e infondendo così nuova linfa all’albero della vita in continuo divenire. A ben vedere, si tratta di temi non dissimili da quelli con cui si trova alle prese il traduttore, sempre costretto a misurarsi tra la propria visione delle realtà e quella altrui; la propria scrittura e quella unica dell’altro; tra le esigenze della committenza (in questo caso, peraltro, particolarmente sensibile al rispetto del testo fonte) e le peculiarità stilistiche dello scrittore; tra accogliere la diversità e addomesticarla. Nel caso di Abdolah la questione è resa più complessa dal fatto che fin dall’inizio l’autore ha scelto di scrivere in una lingua d’adozione, il nederlandese, imparata da autodidatta e perfezionata nel tempo. Egli si esprime quindi in un idioma meticcio, talvolta straniante, talvolta particolarmente suggestivo, talvolta ancora eccentrico e che, pur avvicinandosi sempre più allo standard, conserva un’impronta e una musicalità altre, nelle scelte lessicali, in quelle sintattiche e nel ritmo. Questo tratto distintivo della sua scrittura è accentuato dalla scelta di stilemi narrativi – il racconto a cornice, il modello della fiaba – che richiedono un rispetto rigoroso, pena la perdita di magia, di tensione narrativa e di un’altra importante dominante: la volontà dell’autore di testimoniare le proprie radici, la propria storia e quella del suo paese e e di farsi ponte tra due due culture, tra Oriente e Occidente.
Nel caso specifico, poi, Un pappagallo volò sull’IJssel comincia con la citazione di un racconto persiano, che condensa in nuce uno dei temi ricorrenti della prosa abdholiana – l’accettazione del destino – annunciandone la ripresa all’interno del romanzo. Questo esordisce quindi con la suspense (e il ritmo) di un mystery, per proseguire brevemente con tono e impianto di favola e trasformarsi quindi in un racconto sospeso tra ricostruzione storica e immaginazione, in cui non mancano accenti mitici (nelle figure della “guaritrice Klazien”, degli “undici uomini anziani” e del “Pappagallo”) e citazioni dell’attualità.
Da questi accenni si comprende quanto sia profonda la connessione tra scelte linguistico-stilistiche e temi del romanzo, e quanto debba essere consapevole l’approccio del traduttore, cui è richiesta attenzione per la punteggiatura, per l’essenzialità pregnante dello stile, per le atmosfere poetiche care all’autore e per il peso delle parole in un romanzo che, al di là dello scardinamento identitario provocato dalla migrazione, parla del dolore della vita.