Andando sul sito di Trenitalia per cercare un biglietto ferroviario, le località che bisogna immettere per raggiungere il luogo di nascita mio e di Maxi Obexer sono “Bolzano Bozen” e “Bressanone Brixen”. Distanza: 30 minuti di treno. Questi pochi dati condensano l’esperienza che è stata per me tradurre “La prima estate dell’Europa”, il testo a cavallo tra romanzo autobiografico e pamphlet di Maxi Obexer, scrittrice sudtirolese ormai naturalizzata tedesca. Italiano tedesco. Intimamente legati nella storia di quanti di noi, negli ultimi 100 anni, sono nati nella realtà multilinguistica e multiculturale Sudtirolo Alto Adige. Obexer e io siamo più o meno coetanee, cresciute in modo simmetrico, con una lingua madre e una seconda lingua opposte, partite entrambe per andare a studiare all’estero e mai più rientrate nella nostra terra d’origine. E tradurre questo romanzo, così vicino alle mie radici, è stato un po’ come guardarmi allo specchio.
Gliel’ho scritto, a un certo punto: ci sono dei passaggi del libro che – anche a distanza di mesi, anche dopo averlo letto, tradotto e riletto diverse volte in revisione – continuano a commuovermi. Capita, con i libri belli. Ma diventa inevitabile quando il libro racconta un po’ anche la tua storia.
Nel romanzo, Obexer ripercorre la sua esperienza di migrazione in Germania, a Berlino, analizzandone il significato con la prospettiva del tempo: gli affetti che si lasciano (la famiglia ma anche le Dolomiti, una presenza costante e imponente in ogni località altoatesina); le esperienze che poco a poco ti conducono a essere ciò che intuisci di volere per la tua vita; le persone e gli ambienti che ti permettono di diventarlo; il confronto con un mondo più grande, che noi provinciali ci portiamo sempre dietro; e una sorta di rappacificazione finale con le tue origini, il ciclo che si chiude, che fa di te ciò che sei proprio perché vieni da un certo posto e hai poi scelto di prendere una strada poco battuta per trovarti. Quello che, come traduttrice, non ti aspetti, è di avere un’epifania sulle tue, di origini:
“Non sono i sudtirolesi di lingua tedesca che oggi hanno bisogno di lealtà, ma gli altoatesini di lingua italiana e la loro storia, la loro immigrazione, la loro presenza, l’immagine
che hanno di sé. Sono la minoranza italiana all’interno di una minoranza di lingua tedesca all’interno di uno Stato nazionale italiano. A loro chi pensa?”
Quando, diciottenne, arrivavo a Ginevra per studiare traduzione, la classe di italiano era composta da studenti provenienti da diverse parti d’Italia: Puglia, Piemonte, Lazio, Toscana, Sicilia, Lombardia. Eravamo in pochi, ogni anno ne ammettevano una decina, e durante le lezioni leggevamo in continuazione i nostri testi. La differenza tra il mio italiano e il loro mi era stata subito chiara. Come una doccia fredda, avevo sentito quanto le mie due lingue mi avessero tolto qualcosa.
Scrive Obexer:
“Una volta Elena mi spiegò che un russo poteva perdere tutto, a condizione che conservasse la sua lingua. L’unica vera patria era la lingua, che aveva cucita nella fodera interna del cappotto. E io? Cosa andavo cercando con tanta tenacia all’estero, se non una lingua?
Il mio cappotto non aveva una fodera interna. O se l’aveva, era bucata.”
E ancora:
“Firmai il mio primo contratto per le due prime pièces teatrali. Mentre brindavamo con lo champagne, la direttrice editoriale mi chiese che dialetto parlassi. Per poco non mi
andò di traverso. Dialetto? Ero una sua nuova autrice e mi chiedeva del mio dialetto? Non parlavo un tedesco perfetto? Avevo lavorato sodo per esprimermi in tedesco standard,
e lei tirava in ballo un dialetto?”
Ricerca identitaria, per Obexer la scrittura non può non essere anche un atto politico: perché per noi europei è tanto facile migrare per cercare la nostra felicità altrove, mentre le migrazioni di milioni di persone nel mondo sono un incubo? E qual è il ruolo dell’Europa in tutto questo? Al pari della scrittura, anche la traduzione è un atto politico. Nel 2017, dopo aver letto il romanzo di Obexer – che sentivo liberatorio, necessario – mi auguravo che il libro potesse suscitare l’interesse di un editore italiano. È stata la casa editrice di Merano Alpha & Beta a riconoscerne la rilevanza e a decidere di pubblicarlo. Non solo: poiché la lavorazione avveniva in piena pandemia, Giuliano Geri mi ha chiesto di intercedere presso l’autrice per l’aggiunta di una postfazione all’edizione italiana. Confinata in Alto Adige durante il lockdown, Obexer ha raccolto l’invito aggiungendo un’approfondita analisi il cui termine chiave è: diversità – diversità in nome di una globalizzazione meno contraddittoria, di cui si possano contenere le conseguenze, nel rispetto del pianeta e della vita umana, prima che degli interessi economici. “Solo recuperando la diversità potremo salvarci”, conclude Obexer, e mi pare non possa esserci conclusione migliore per qualsiasi libro in traduzione, che offre prospettive linguistiche e culturali diverse regalandoci spesso introspezioni comuni all’intero genere umano.