Nell’ultimo romanzo di Kader Abdolah, Il sentiero delle babbucce gialle, Iperborea 2020, uno scrittore iraniano, esule politico in Olanda, riceve da un anziano regista, suo connazionale, e come lui approdato nei Paesi Bassi dopo aver lottato contro il regime dello scià e quello degli ayatollah, un manoscritto redatto in un olandese rudimentale, insieme alla richiesta di trarne un racconto ben scritto. È questo un topos ricorrente nei romanzi di Abdolah, a partire da Scrittura cuneiforme - romanzi che si contraddistinguono anche per un altro motivo, in questo caso di valore essenziale e pertanto costante nella narrativa abdolaiana: la citazione, a titolo di prefazione o prologo, di un brano ispirato alla tradizione letteraria persiana. Si tratta di brani posti come pietra angolare, dichiarazione e memento di appartenenza a un’identità da cui l’autore non può e non vuole prescindere, ma anche uno sguardo rivolto con nostalgia alla terra natale perduta, alle proprie radici e alla propria storia. Il sentiero delle babbucce gialle non fa eccezione rispetto a questa consuetudine. In particolare, il prologo di questo romanzo, una riscrittura di un testo capitale del poeta mistico Farid al-Din ’Attar, prefigura – originariamente all’insaputa del lettore, che invece nella versione italiana trova, in chiusura, una nota critica esplicativa di Natalia Tornesello – l’intera parabola del racconto. E veniamo per l’appunto al racconto, che non segue un andamento lineare – con un incipit, un’evoluzione e un finale – e neppure è incardinato su un alternarsi di flashback e attualità. Il sentiero delle babbucce gialle si presenta come uno “zibaldone” di storie che si susseguono secondo lo schema del racconto a cornice, e in cui la tenacia del lettore, che pure riconosce fin dall’inizio luoghi e circostanze della biografia di Abdolah ed è irretito dalla magia di molte sue invenzioni, viene ricompensata solo dopo diverse pagine, quando si delinea il filo rosso che lega quelle narrazioni apparentemente a sé stanti: quel filo è il sentiero della vita che il regista, protagonista in prima persona della storia, ha seguito nel volgere dei suoi giorni, la strada che ha percorso per inverare se stesso.
Non proseguo oltre nel rivelare la trama o nell’accennare alle possibili letture del romanzo per dedicare qualche riflessione all’impegno che ha richiesto la sua traduzione. In primo luogo si può dire che la conoscenza delle precedenti opere di Abdolah (temi, stilemi, parole ed espressioni chiave, scelte linguistiche, di ritmo e tono) sia stata essenziale per capire in che misura questo romanzo si ponga in linea di continuità rispetto a queste e ne rappresenti un’evoluzione. La novità più interessante riguarda la maggiore libertà e vivacità con cui Abdolah si lascia trasportare dall’invenzione narrativa - imprimendo un nuovo corso a esperienze del passato o dando vita a fantasie inedite rispetto agli eventi consegnati agli annali della storia, innescando sogni su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Riscrivere con la libertà propria dell’immaginazione accadimenti passati significa anche vincere paure, superare tabù, liberarsi di fantasmi, venire a patti con il proprio destino, come ritengo accada in questo libro. E allora il traduttore non può che cercare di seguire l’autore e lasciarsi condure dalla fantasia della sua penna, qui di nuovo talvolta surreale, dal ritmo delle sue frasi, confidando che l’immaginazione dello scrittore lo prenda per mano e gli permetta di trovare, anche nella versione italiana, quell’alchimia che rende il racconto avvincente, esotico, evocativo e poetico nel suo realismo trasfigurato. Ciò richiede che il traduttore resti immerso nelle atmosfere, nel tono e nel ritmo del testo; questa condizione, che favorisce quel «flusso» ideale tra una lingua e l’altra, non è tuttavia una condizione astratta, inconsapevole, quasi «magica»: è, invece, uno stato di allerta costante, di cura nel pesare le parole e i silenzi, di attenzione a non farsi sfuggire le ricorrenze di aggettivi, sostantivi e immagini – in breve, i richiami interni, nella cornice del romanzo e dell’intera opera dell’autore: per quanto alla fine il testo italiano possa apparire «semplice» e «spontaneo», esso è frutto di un processo traduttivo consapevole e complesso (se riuscito o meno, solo un critico della traduzione potrà dirlo!).
Concludo con alcune considerazioni sulle scelte e sui residui traduttivi.
Com’è noto, la scelta del titolo di un’opera è prerogativa dell’editore. Il titolo ha funzioni molteplici, tra cui quella di «sedurre» il futuro lettore. Fatta questa premessa, in questo caso si è deciso di privilegiare l’atmosfera orientale del romanzo facendo leva sull’immagine evocativa delle «babbucce», nonostante le calzature descritte nel libro non siano tali: ritengo si sia trattato di un buon compromesso, considerando la mancanza, in italiano, di un traducente univoco altrettanto efficace per il vocabolo olandese, peraltro plurisemantico, scelto dall’autore.
L’altra decisione insolita è stata quella, coralmente condivisa, di mantenere il termine jinn nella versione originale traslitterata: tradizionalmente questa parola è stata resa con l’italiano »genio» (cfr. il genio della lampada di Aladino), ma qui, viste l’ambientazione e l’atmosfera del racconto, si è voluta mantenere la pregnanza del termine persiano. E, poiché sia il suono del vocabolo, sia il contesto non ostacolano la comprensione, non si è ritenuto necessario introdurre una nota. Come traduttrice e consulente editoriale, invece, ho proposto all’editore di pubblicare sul sito di Iperborea, in parallelo all’uscita del libro, un’intervista a tutto campo a Natalia Tornesello, docente di letteratura persiana e preziosa consulente, cui è stata rivolta anche una domanda specifica sulla natura del jinn.
Inoltre, si è ritenuto indispensabile apporre una nota per contestualizzare il prologo del romanzo, insolito e inatteso per il lettore, ma di valenza fondamentale per la piena comprensione del romanzo. Una nota a piè di pagina richiama il nome dell’autore dell’opera da cui Abdolah mutua il testo, rimandando a una nota critica alla fine del libro in cui Natalia Tornesello entra nel merito dell’opera stessa.
Da questa riflessione emerge, ancora una volta, come l’affascinante professione del traduttore contempli la padronanza di strumenti e attitudini pluriformi: la conoscenza della lingua; la conoscenza dell’opera dell’autore; l’ascolto del testo, della sua melodia e dei suoi silenzi; l’attenzione alle scelte linguistiche e sintattiche e ai riferimenti culturali intratestuali, che mettono in moto la ricerca di fonti e lo studio di opere e temi, che, nel caso di un autore di cultura persiana come Abdolah, prevedono la consulenza costante di esperti. La traduzione si configura così come una creazione composita, frutto di competenze e sensibilità diverse, non ultime quelle del redattore e dell’editore: l’esito armonico di un autentico lavoro di squadra, come un’opera d’arte uscita da un’antica bottega artigiana.