Autore:
Moris Farhi / editore: Edizioni Lavoro, 2012
Pubblicazione:
11 maggio 2012
A corredo di questi Figli dell'arcobaleno avevo pensato dapprincipio di compilare un glossario, magari ragionato: in coda a un libro zeppo di parole prese a prestito da molte lingue diverse, di toponimi quasi o del tutto ignoti, di personaggi variamente rubati alle cosmogonie e mitologie di ogni luogo e tempo, forse qualche lettore l'avrebbe trovato utile. Ma i termini stranieri sono già perfettamente spiegati nel testo, e allo stesso modo è il romanzo a narrarci verità ed epopea di luoghi leggendari come Ada Kaleh, per tacere di quelli «tristemente noti». E quanto a personaggi, o comparse, di nome Adamo, Buddha... e via via fino a Vulcano e Zoroastro, a contare qui non è tanto il contesto che diede loro vita o la loro precisa collocazione letteraria, quanto la capacità di evocare in un attimo un'emozione intellettuale, un ricordo seppure vago, una scintilla di familiarità. Nessun bisogno di un glossario, insomma. Allora meglio scrivere una breve Nota alla traduzione,
in cui «chiarisci i problemi... commenti sulle difficoltà». Ma se la traduttrice non ha avuto problemi, se non ha incontrato difficoltà, può dirlo senza il rischio di sembrare un'insopportabile arrogante o una patetica ingenua? Il punto è che riesce molto arduo catalogare come «difficoltà» le richieste di questa traduzione – di ogni traduzione a dire il vero, se il libro ci è entrato nel cuore.
Perché non è stato un problema dover setacciare la Rete in cerca di vocabolari di lingua romanès, scoprire fra l'altro che «acqua» si dice paní e rendersi conto che quella stessa parola, pani, la usa tua figlia di due anni perché la sua bambinaia è un'indiana del Punjab, luogo dal quale si ritiene provenga originariamente il popolo rom. Non è stato un problema consultare fonti cartacee e informatiche, più i colleghi e gli amici che ogni traduttore felice coltiva, per accertarsi della grafia corretta di parole romene, serbo-croate, bulgare, turche, ungheresi, e imparare a scrivere velocemente accenti e segni diacritici necessari. Non è stato un problema dover scorrere e leggere pagine su pagine web per trovare conferma a nozioni conosciute ma fattesi magari un po' nebulose – divinità fenicie e greche, storie bibliche – o spiegazioni su entità, concetti e termini legati a usanze ebraiche, miti induisti, leggende nordiche. Non è stato un problema dover ripassare la storia e la geografia dei paesi balcanici. E anche dover tornare a Birkenau, nel campo riservato agli Zigeuner, e rivivere la narrazione del loro sterminio per mano nazista è stato doloroso, ma non una «difficoltà».
E allora...? Di traduzione sembra si riesca a parlare solo per metafore, e fra queste la metafora del viaggio è certo fra le più logore. Ma Figli dell'arcobaleno è in effetti la storia di almeno tre viaggi: quello di Benedict alla ricerca di Branko, il romaní dentro di lui, l'unico suo sé vitale malgrado solitudini, paure, la sofferenza della sterilità; quello che poi conduce Branko alla scoperta e alla riappropriazione del Libro santo, la Bibbia gitana; e infine è la storia del viaggio di tutto il suo popolo verso la promessa di una vita libera, pacifica e dignitosa nel Romanestan, paese d'acqua e di sogni.
E forse a questo punto è possibile dire che la versione italiana di questo romanzo rappresenta un quarto viaggio, quello della traduttrice. Che per un verso si è lasciata prendere per mano dalla meravigliosa lingua meticcia di Moris Farhi, dove ogni parola è un patrin che indica la strada da seguire e riduce al minimo la paura di sbagliare, che è la fatica del tradurre. E per un altro ha potuto accompagnare Branko e i suoi rom prima alla ricerca del Libro – magistralmente pensato come lirico distillato di tutti i Libri – e poi di un paese. Mentre il profeta e i suoi figli percorrevano boschi e fiumi, la traduttrice navigava sul mare ospitale delle parole, imparando con gioia e meraviglia molte cose del cielo e della terra; e alla fine del viaggio in un libro che è molti viaggi, si è generato un altro libro, questo. Si poteva chiedere di più?
Per finire, mi preme ricordare chi mi ha accompagnata: Mariantonietta Saracino per la fiducia sempre, fin dall'inizio; gli amici traduttori e non traduttori di Qwerty e di Facebook, in particolare Laura Prandino che mi ha «passato i compiti» di cultura rom, Marina Morpurgo per la montagna, Ileana M. Pop ed Elisa Comito per il romeno, Alexandra Foresto e Andrea Rényi per l'ungherese; e il professor Marco Brazzoduro, di certo «il miglior pral dei rom» in Italia, con tutti gli amici romaní che ha interpellato per aiutarmi a essere più precisa che potevo. Grazie di cuore a tutti.