Autore:
Sélim Nassib / editore: Edizioni e/o, 2005
Traduzione di:
Gaia Panfili - traduttore: Gaia Panfili - Traduzione dal francese
Pubblicazione:
15 marzo 2005
Il mio dietro le quinte, che la nota del traduttore permette di svelare e di cui io personalmente sono golosa nel lavoro degli altri, comprende, come da tradizione, un lungo e solitario corpo a corpo con le parole, un funambolico andirivieni tra le lingue, in questo caso l'italiano e il francese, e anche uno scambio con lo scrittore. Come molti, confido nella disponibilità degli autori e in genere cerco di costruire un ponte per comunicare. In fondo, mi dico, è nel loro interesse, io sono al servizio della loro parola. Per rendermi quanto più trasparente possibile, come qualcuno raccomandava di fare ai traduttori, devo prima poter penetrare nella scrittura, appropriarmene, coglierla appieno. E un testo, anche quello in apparenza più semplice e banale, presenta sempre qualche opacità. Se scioglierla alla luce del sole in nome della leggibilità o mantenere quell'estraneità di fondo che palpita dietro ogni parola straniera (solo dietro a quelle straniere?) e che non va addomesticata, come qualcun altro ammoniva, è un altro discorso ancora. In ogni caso, mi sento sempre in dovere di parlarne con l'autore.
Il contesto tutto particolare in cui si svolge la vicenda di Golda Meir e del suo amante palestinese mi ha chiesto un’ampia attività di documentazione per poter rendere al meglio i fatti storici, le ricostruzioni, i personaggi realmente esistiti, ma anche gli umori, le allusioni, le schermaglie da salotto di cui il libro è intessuto e che fotografano un luogo e un tempo: la Palestina a cavallo tra i primi anni Venti e il 1948, terra di grandi strategie economiche, astuzie politiche, inevitabili cambiamenti e immobilismi forzati, teatro di sbarchi in massa di immigrati ebrei e sgomberi altrettanto copiosi di popolazioni locali, fanatismi, rappresaglie da ambo le parti, confusione e inettitudine politica.
La scrittura scabra del libro, la scelta di un taglio cronachistico mi hanno imposto un lavoro tutto in sfrondatura. Uno stile spoglio ed epurato che non richiede di trasmettere immagini fantasiose o lirismi sofisticati ma invece, questo sì, un’attenzione costante a non cadere nella banalità o nella piattezza.
Più delicata del solito, e piuttosto divertente per quanto mi riguarda, è stata la ben nota questione dei pronomi personali soggetto, sempre menzionati in determinate lingue, come il francese, e allegramente omessi in italiano. Il caso si presentava alquanto rischioso. La ricorrenza del binomio lui/lei, in particolare nelle scene degli incontri appassionati, conferiva all’italiano un sapore di romanzo d’appendice che mal si conciliava con il racconto di una relazione mai lieve né spensierata e con il contesto drammatico in cui essa si svolge. Del resto l’autore medesimo mi aveva confidato quanto a tratti fosse vincolante lavorare su un personaggio realmente esistito, in cui non si può inventare a proprio piacimento ma occorre salvaguardare verità e verisimiglianza. Inoltre la sua intenzione non era creare lo scandalo attorno a una persona nota o sventolare dettagli da alcova. Era mio dovere rispettare il suo rispetto, non scadendo nella caricatura da rotocalco ma mantenendo una gravità uniforme. Ho risolto con una piccola licenza, adoperando più spesso i nomi propri dei personaggi anziché i pronomi personali, oppure ricorrendo a qualche altro escamotage come, per esempio, inserire l’uomo, la donna. Fa eccezione il paragrafo finale, in cui si tratteggia un ultimo incontro sotto le granate e le bombe agli albori della ripartizione del paese, nel 1948, in un quadro di macerie, desolazione e solitudine spettrali. La mancata menzione del nome di Golda è al servizio di una vaghezza che rispecchia l’atmosfera quasi onirica voluta dal testo. In questo caso il ricorso ai pronomi lui/lei è indispensabile al momento narrato, che richiede di sfumare i contorni e alimentare l’indeterminazione.
Di tutto questo ho reso partecipe l’autore tramite una lettera, romanticamente spedita per posta invece che via e-mail e di cui peraltro non è rimasta traccia alcuna, visto che io non ne conservo copia e che l’originale, come egli mi ha confessato con candore, giace sepolto da qualche parte nel mucchio delle sue carte.
Queste e altre questioni di traduzione, inoltre, sono state oggetto di due piacevoli incontri con lo scrittore che, assieme alla sollecitazione della presente rivista, mi hanno spinto a riflettere sul concetto di migrazione. L’amante palestinese come romanzo di migrazioni, dunque? Direi crocevia di migrazioni.
Un testo che parla di popoli migranti, gli ebrei alla volta della terra santa e i palestinesi da un angolo all’altro della terra in cui risiedono, con tutto ciò che arrivi e partenze comportano quanto a cambiamento, sradicamento, speranza, disperazione, in una parola violenza, in senso proprio e in senso lato.
Un libro che racconta la storia tra Golda e il suo amante, emblema di una migrazione intesa come incontro con l’altro, viaggio alla scoperta dell’altro. Non solo una relazione tra un’ebrea e un palestinese, che (ahinoi) vivranno un divario incolmabile e un’incomunicabilità di fondo nel vortice delle circostanze, dell’ambiente, della Storia, ma l’illustrazione del valico di una distanza che in realtà presiede a ogni rapporto umano, con tutte le difficoltà cui esso si accompagna.
La migrazione propria dell’autore, libanese di origine ebrea, trapiantato a Parigi, che mi ha svelato il suo desiderio di tornare a vivere almeno per qualche tempo in Libano in un momento di grandi fermenti nella regione del Medio Oriente. Parlavamo delle timide speranze di pace in Israele dopo le sorprendenti aperture di Sharon. E ancora non si erano verificati l’attentato di Beirut all’ex primo ministro Hariri né le colossali manifestazioni di piazza dei libanesi contro la Siria…
La migrazione del traduttore, nel suo viaggio all’interno di un testo da penetrare, esplorare e ricostituire, in un incessante e assai stimolante viavai tra lingue, culture, parole.
E infine, più modestamente, la mia propria migrazione, che rinnovo altresì a ogni lavoro di traduzione, sperimento giorno per giorno conoscendo anch’io altro, che sia attraverso una situazione, una persona, un libro, un film, e provo vivendo ora in Francia.
Vari gradi di migrazioni, varie accezioni, varie sfaccettature.
Ma sempre, per quel che mi concerne, con il pensiero a coloro per i quali migrare vuol dire prima di ogni altra cosa essere costretti a partire in tutta fretta e portarsi la propria casa sulle spalle.