Leggere Lolita a Teheran

Argomento: Migrazioni
Autore: Azar Nafisi / editore: Adelphi, 2004 / Traduzione dall'inglese
Pubblicazione: 7 ottobre 2004
Vorrei premettere una cosa, in tutta sincerità: sul libro della Nafisi ancora non ho le idee chiare. Non fino in fondo, almeno. Piuttosto che come delle vere note, dunque, le bizzarre disquisizioni che seguono andrebbero intese come la testimonianza di una certa confusione, di una reazione - a bocce ferme, si suol dire - un po’ troppo umorale che stupisce anzitutto me stesso. Pertanto, le suddette disquisizioni, a nome e per conto del loro autore, si augurano ancora più del consueto di non indispettire chi le dovesse leggere. Reading Lolita in Tehran appare (Random House, 2003) due anni dopo un altro testo che affronta, in gran parte, le stesse tematiche: lo splendido romanzo a fumetti Persepolis, di Marjane Satrapi, giovane iraniana da tempo emigrata in Francia. Si tratta, come da sottotitolo, della "storia di un’infanzia”, dedicata a “tutti quegli iraniani che hanno perso la vita in prigione per difendere la libertà, coloro che sono morti nella guerra contro l’Iraq, che hanno subito la repressione dei diversi regimi, che sono stati costretti a lasciare le loro famiglie e fuggire dal loro paese” (cito qui dalla versione italiana, Sperling & Kupfer). Quindi, incidentalmente, anche alla Nafisi. Conoscevo già Persepolis prima che mi venisse proposto di lavorare a quello che doveva diventare (e sono contento della decisione di tradurre il titolo originale senza cambiarlo) Leggere Lolita a Teheran, anche se poi il caso ha voluto che lo leggessi solo parecchio tempo dopo. Mi era stato (lo aggiungo a tardivo ringraziamento) raccomandato da una mia studentessa di origine iraniana; la stessa che - successivamente - avrebbe provveduto con pazienza e precisione a sciogliere certi miei dubbi in merito ai tortuosi dress codes imposti alle donne dall’ortodossia islamica. Mi raccontò - tra l’altro - che in quel periodo (l’anno scorso o poco più), in Iran andavano di gran moda i foulard di Hermès; sull’onda (molto lunga) delle timide aperture che avevano seguito la morte dell’Ayatollah Khomeini, il 3 giugno del 1989, il regime adesso tollerava un po’ più di colore - oltre ai classici nero, blu e marrone - per il rusari, letteralmente “copricapo”, qui da noi, più semplicemente, “velo”. Non lo sapevo, per quanto magari fosse logico aspettarselo, ma in Persepolis avrei ritrovato molte delle suggestioni già trasmesse dal volume della Nafisi - volti, suoni, rumori, speranze, disillusioni, paure. Tanto che non mi riesce parlare di un libro senza menzionare anche l’altro; con alcuni distinguo, però. Leggere Lolita a Tehran, se devo essere sincero, e a mio transitorio parere, non è un “bel” libro; direi che è piuttosto un libro “importante”, anche se qua e là ci sono delle pagine davvero ben scritte, asciutte e penetranti come il bianco e nero senza ombre della Satrapi. Penso, per esempio, al racconto del funerale notturno della nonna del “Pupo” (avevo proposto un’altra traduzione, qui), di fede baha’i, e pertanto donna “impura” alla quale si deve negare perfino il diritto a una sepoltura decente. O ai capitoli dedicati al processo celebrato contro il Grande Gatsby, accusato di empietà da alcuni studenti integralisti. Oppure la lunga sequenza delle esequie di Khomeini - ricordo ancora i servizi dei nostri telegiornali; sono immagini conservate in una speciale teca mentale - dove la Nafisi riesce a comunicare con grande efficacia la straordinaria carica emotiva, di segno a volte non facile né immediato da comprendere (amore e odio, sollievo e disperazione…) che attraversa come una corrente elettrica i partecipanti alla cerimonia. O anche - di esempi se ne potrebbero fare tanti, preferisco fermarmi qui - la (divertente, ma è sempre black humor, certo) irruzione domestica della polizia che bracca un loschissimo vicino di casa dell’autrice e per soprammercato finisce, dopo qualche giorno, per sequestrare ai Nafisi la parabola satellitare, oggetto il cui possesso è, come dubitarne, vietato. Un libro importante, dunque, perché stimola o dovrebbe stimolare una serie di domande e riflessioni, al di là (nel senso di oltre) degli eventi raccontati. Quesiti tutt’altro che semplici. Se Persepolis, nonostante il fertile background familiare, l’acutezza e la rapida presa di coscienza - leggasi perdita dell’innocenza - della giovane protagonista è forse una storia più che altro subita, Leggere Lolita è un lungo racconto di resistenza e di ribellione. Anche se sarebbe eccessivo definirlo un “manuale”, per esempio. Ribellione al totalitarismo religioso che soffocando le speranze democratiche e progressiste della rivoluzione aveva fatto piombare l’Iran nel più gretto (e omicida) oscurantismo, certo, ma anche - e vorrei poter dire soprattutto - contro tutti i totalitarismi. Mi rendo conto di quanto sia banale questa affermazione. Si potrebbe infatti obiettare che è palese: in casi del genere una denuncia “particolare” è sempre anche una denuncia “generale”, svincolata dai limiti spaziali e temporali, e via discorrendo. Però questo libro esce in tempi difficili, e forse va maneggiato con più cura di quanto si creda (confesso che, per saturazione, non ho seguito tutto il dibattito che ha accompagnato e seguito la sua pubblicazione, quindi potrei fare delle osservazioni ancora più balzane, e chiedo clemenza). Per esempio, soprattutto adesso che, per restare nel nostro paese, una nota scrittrice che non nomino continua a propagandare una lettura dell’Islam - come dire? - altrettanto oscurantista di quella che il regime denunciato dalla Nafisi offre dell’Occidente (e quindi ugualmente colpevole), sarebbe facile per qualcuno far salire l’autrice di Leggere Lolita sul carro (Bradley o Ariete che sia) dei “volenterosi” difensori dell’Occidente. Lavorando al libro mi sono posto una domanda, come forse avranno fatto anche altri lettori: possibile che non esista, per usare parole semplici, un musulmano “buono”, oppure, più in generale, un Islam dal volto umano con cui dialogare? E siccome sono sicuro che la risposta è sì - cioè, esiste - perché non dedicargli qualche pagina in più, soprattutto in un libro così lungo e per giunta, mi si conceda, così gravato di ridondanze? E giacché - ed è una cosa bella - si vuole denunciare anche il meccanismo dell’appropriazione indebita e interessata di un sentimento religioso sincero da parte di un regime, che poi lo manipola a suo vantaggio, perché non difendere con un po’ più di ardore quel sentimento, quella sincerità? Soltanto perché si è laici? Non vorrei, con questo, essere frainteso. Soprattutto in quanto traduttore. Ho sempre inteso il mestiere come un servizio reso all’autore e alla sua opera, e reso, necessariamente, nell’ombra. Facendo un passo o due indietro. Come succede nell’originale, anche nella versione italiana l’unica voce che “parla” è quella dell’autrice. Sto solo (e solo qui) bisbigliando tra i denti che avrei voluto un libro un po’ più, come dire, equanime, anche se è difficile pretendere certe cose da chi ha vissuto in prima e terza persona - e magari più di altri, se non altro in quanto donna - determinate esperienze. O meglio, non tanto l’avrei voluto, quanto mi sarebbe sembrato, adesso, più “utile” al bene comune. Così come avrei preferito che questo libro, piuttosto che riproporre in maniera un po’ facile (ma anche qui, chi sono per giudicare?) e datata l’esaltazione del sogno americano, pur nella splendida metafora della “green light at the end of the dock” di Fitzgerald, si fosse interrogato più a fondo su cosa è capitato a quel sogno. Se non altro perché, quando da più parti (Don DeLillo, per fare soltanto un nome) ci si interroga non senza sofferenza - noi appassionati di cose americane, almeno, altri magari, bella soddisfazione, lo fanno con più acrimonia - sul come sia possibile oggi ricominciare a parlare dell’America come “grande narrativa”, come racconto che parli di nuovo a noi e magari anche un po’ di noi, la visione edenica e (ammettiamolo) un po’ acritica della Nafisi, di questi tempi (il libro è del 2003, non si può dire che sia venuto alla luce in epoca non sospetta), rischia di portare acqua a un solo mulino. Queste manchevolezze, tutto sommato, non sono gravissime, e magari rappresentano un difetto solamente per il sottoscritto. Per fortuna, a distanza di tempo quello che di Leggere Lolita mi è davvero rimasto è ben altro e migliore. Dalle sue pagine, e con le sue azioni, non ultima il trasferimento negli Stati Uniti, la Nafisi rivolge al regime fondamentalista, e a Khomeini in particolare, un’accusa ben precisa: quella di essersi voluti appropriare in toto delle loro vite, nei loro aspetti prima di tutto pubblici, ma alla fine anche privati; di averle usurpate, nel tentativo - proprio, questo sì, di ogni totalitarismo - di renderle uniformi al proprio sogno, a un perverso (già solo per essere imposto dall’alto) modello di purezza ideologica e non solo. Per riuscire in questo, prima di ogni altra cosa, è necessario che nei cittadini o sudditi che siano venga repressa e soffocata la fantasia, la capacità che ogni essere umano (ogni essere vivente, piace pensare) ha di immaginare - e perciò creare - “qualcos’altro”. Un mondo diverso, un mondo privato dove i sogni, i pensieri e i desideri possano prendere forma e/o esprimersi, al di fuori di qualsiasi controllo, e quindi anche di quello del regime. Se si capisce questo, si può comprendere appieno tanto la ferocia con cui gli integralisti condannano la letteratura - tuttora uno dei modi migliori per condividere con i propri simili il “qualcos’altro” di cui sopra - quanto il valore affatto consolatorio, semmai pedagogico, in senso lato, che essa riveste per la Nafisi. Dalle sue lezioni proibite, le sue (fortunate, perché no) studentesse - e di riflesso i suoi lettori - imparano a interpretare la realtà, e prima di tutto la loro, proprio come e mentre interpretano un romanzo di Henry James, Jane Austen o Vladimir Nabokov. La quotidianità opprimente e conformista della nuova teocrazia e la finzione senza tempo dei classici della letteratura occidentale si rincorrono, rispecchiandosi l’una nell’altra, spiegandosi a vicenda. Parafrasando Brecht, l’arte - e quindi la letteratura - riesce a diventare (o, almeno, è quello che la Nafisi e le sue ragazze vorrebbero) non soltanto “uno specchio (vado a memoria) che riflette la realtà, ma [anche] un martello per darle forma”. Nella Repubblica Islamica dell’Iran come, magari, altrove.