Songs of Spring, il mio precedente Quaderno di traduzioni, apparso da Marcos y Marcos nel 1999, racchiudeva nel titolo il cuore di un verso di John Keats, tratto da To Autumn: dove sono i canti di primavera, dove sono ora? L’intendimento era quello di comunicare al lettore, sin dal titolo, l’alta temperatura “romantica” che percorreva la raccolta: se ne accorsero i giurati del “Mondello” che vollero premiarlo, in primis proprio per quella febbre, misurata – nella loro motivazione – come altissima.
Dodici anni dopo mi trovo qui a raccogliere una nuova messe di traduzioni e imitazioni (certamen, æmulatio, imitatio: volta a volta ripeto tra me quando sigillo una nuova versione nel mio pc) di diverso segno e temperatura. Sempre più convinto che - nei confronti della poesia scritta in altre lingue che quotidianamente mi giunge sul tavolo o rileggo in biblioteca – il mio servizio non possa essere che di tipo “estetico”. Lascio ad altri la funzione “sociale”, la traduzione integrale di un’opera o di un autore...
L’unico modo che conosco per rapportarmi a un altro poeta è quello di incontrarlo “poieticamente” su un dato testo. Un incontro che fa leva da un lato sull’incastro tra due poetiche, la poetica del tradotto e la poetica del traduttore (con sempre ben presente nella memoria emotiva la definizione anceschiana:“la riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul proprio fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali è la poetica”); dall’altro proprio quel poiein, quel “fare” che indusse gli antichi bardi scozzesi a definirsi Makar, fattori, costruttori.
Un poeta è – insieme – un costruttore e un divoratore di linguaggi, operazioni che tuttavia non può compiere senza avvalersi di un metodo. Il mio – con specifico riferimento al tradurre - principalmente si rifà alla distinzione poundiana tra melopea, logopea e fanopea.
In ogni testo che capisco di voler “tradurre” cerco di individuare l’elemento prevalente, quello irrinunciabile: può consistere nell’intarsio ritmico-melodico, o nel pensiero nitidamente formulato, oppure nell’illuminazione, nell’epifania: quel guizzo, che da solo costituisce il senso profondo del testo. In tal modo, so dove posso eventualmente compiere un sacrificio.
Mia ferma convinzione è che non di “fedeltà” si dovrebbe parlare bensì di “lealtà”. Il termine fedeltà connota guanciali, lenzuola e sotterfugi; il termine lealtà due occhi che fissando altri occhi dichiarano amore ammettendo un momentaneo “tradimento”. Sono stato leale alla tua altezza poetica, tradendoti qui e qui e qui: l’ho fatto per restare il più lealmente possibile alla tua altezza. Questo è ciò che dico ogni sera ai poeti vivi e morti coi quali cerco di intessere il dialogo poietico. Un dialogo che essi proseguono anche tra loro, spesso con insofferenza verso la mia idea di macrotesto, per via degli accostamenti imposti, delle sequenze argomentative.
Nella moderna traduttologia, i concetti di ritmo, di avantesto, di intertestualità, di poetica e quello “apeliano” di movimento del linguaggio nel tempo, vanno sempre più sostituendosi alla dicotomia ciceroniana ut orator/ut interpres e alle novecentesche coppie oppositive: traductions des professeurs e traductions des poètes, come scriveva Mounin; traduzioni target-oriented o source-oriented (le famose traductions ciblistes e traductions sourcières dibattute da Meschonni e Ladmiral); o the translator’s invisibility ipotizzata da Lawrence Venuti, implicitamente convincendoci dell’esistenza di una translator’s visibility.
Ecco, come questa terminologia mi sfugge dalla penna, subito passo al “noi”, mentre mi ero ripromesso di essere solo singolare: prima persona – magari – ma singolare. Condivido la sostituzione, ritengo chiusa l’epoca delle dicotomie e delle coppie oppositive, ma questa sera non ci voglio pensare. Questa sera vi chiedo: lasciatemi divertire, lasciatemi volgere altrove sguardo e pensiero, dis-vertere per quanto possibile.
Per quanto possibile: perché, a chi scrive, ciò non è mai dato fino in fondo. Pound – in una delle poesie qui tradotte – vorrebbe aprire una piccola tabaccheria pur di smetterla con questo lavoro dello scrittore che lo costringe a pensare. Sempre. Provate anche voi a entrare nel negozietto.
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* Confesso che a questo punto il pensiero mi è andato fortemente oscillando anche verso la famosa
tabaccheria di Pessoa (“L’uomo esce dalla tabaccheria / Infilandosi il resto nella tasca dei calzoni. /
Ah, so chi è: è Esteves senza metafisica. / Il padrone della tabaccheria si affaccia all’ingresso. / Per
istinto divino Esteves si volta e mi vede. / Mi saluta con un cenno, gli grido: arrivederci Esteves, e
l’universo / Mi si ricostruisce senza ideali né speranza. / Sorride il padrone della tabaccheria”), ma a
questa tentazione ho resistito. Sarà per un’altra volta.
Franco Buffoni
Articolo pubblicato per gentile concessione dell'editore Marcos y Marcos.