Se c’è un ambito in cui ho sempre pensato che le parole non bastino mai, è quello delle relazioni sentimentali. Quando una persona si trova davanti alla meraviglia di scoprire dentro di sé – e possibilmente nell’altro – un sentimento travolgente, che mette tutto il resto in ombra, in secondo piano, ecco che le parole iniziano a scarseggiare. All’estremo opposto, un altro momento in cui questo accade è quando una storia d’amore finisce, e ci si ritrova a vivere di scampoli di ricordi, di dolore, di nuove speranze, di tentativi di dare un senso agli avvenimenti. Forse, è necessario esserci passati, per comprendere fino in fondo cosa voglia dire non avere le parole, oppure cercare di dar forma, alle parole, a qualcosa di troppo grande, troppo doloroso per essere razionalizzato così. Sono i momenti in cui ci si sente completamente privi di una membrana che ci separi da ciò che ci accade attorno e ci tocca, come se fossimo scorticati.
Imre Oravecz fa questo, in Settembre 1972: prende una storia d’amore (la sua? una qualunque? la storia d’amore per eccellenza?) e la descrive in 99 quadri, dal prologo all’epilogo. L’avrebbe potuto fare con delle poesie, o un racconto a episodi. Lo fa, invece, in una forma davvero insolita: tramite 99 quadri sotto forma di poesie in prosa, ossia brani privi di punti fermi, mediamente di una pagina, in cui la prima frase corrisponde, al contempo, anche al titolo. Ci si sofferma un secondo su questo elemento, in grassetto, in cima alla pagina: un titolo che spesso è l’inizio di un discorso e che non viene ripetuto a testo, ma fluttua lì, nella sua incompletezza, sopra al resto della non-poesia (o della non-prosa). Il lettore si addentra nel testo a leggere e rotola fino in fondo alla pagina, senza tregua, con il ritmo incessante di una valanga o di una pioggia torrenziale; senza l’ausilio di una pausa ferma, ma a rotta di collo, senza alcuna rete di protezione della punteggiatura se non le virgole.
E così si procede, pagina dopo pagina: gioia, eccitazione, contentezza, pienezza, vuoto, abbandono, disperazione, indifferenza, rinascita: novantanove momenti di una relazione, in cui tutti, in un modo o nell’altro, possiamo immedesimarci. Perché se non tutti abbiamo amato e sofferto, sicuramente tutti abbiamo provato gioia e timore, la disperazione dell’abbandono, l’incapacità di accettare gli accaduti. Sono sentimenti universali: non c’è bisogno di immedesimarsi in Oravecz, perché è piuttosto Oravecz che si immedesima in ognuno di noi, nella nostra piccola, fragile e assieme immensa umanità, con il suo carico di gioie e dolori.
Quando ho tradotto Settembre 1972 ho sospeso ogni considerazione tecnica. Travolta dal testo, forse perché stavo vivendo una situazione simile all’innominato protagonista del libro, ho fatto letteralmente un passo indietro, lasciandomi trapassare dalle parole dell’autore. Ho fatto il minimo possibile: se si può dire così, ho tradotto in punta di piedi, scegliendo ove era fattibile la versione più semplice, forse anche più banale della traduzione. Non per pigrizia, o per scarso interesse per il lavoro, ma per il suo contrario: ho trovato Settembre 1972 un testo troppo potente, troppo urlato per intervenire più del minimo necessario.
Per questo, spero che in Settembre 1972 si trovi pochissimo di me e moltissimo di Oravecz. Questa volta, per davvero, più di altre volte, ho puntato a fare solo da membrana permeabile tra l’ungherese e l’italiano. Non avevo idea se il testo sarebbe riuscito a “reggere” al trasloco da una lingua e cultura a un’altra, ma non volevo in alcun modo né ingentilire né “predigerire” il testo a uso e consumo dei lettori italiani. Settembre 1972 è un pugno all’altezza dello stomaco. Lo è in magiaro e speravo che conservasse questa caratteristica anche in italiano.
Lavorare con la poesia è così: uno spaventoso salto nel buio e la coscienza di dover preservare il più possibile non solo il senso, ma anche il sentimento del testo originario. Quindi, non solo lavoro di lessico e di culture, ma più del solito attenzione alla voce, non sempre logicamente inoppugnabile, del cuore e della pancia.