Quando arriva la penombra è l’ultimo libro di narrativa finora pubblicato da Cabré. È una raccolta di racconti, come Viaggio d’inverno, che lo ha preceduto di un paio d’anni sul mercato italiano.
Cabré è uno scrittore che lavora sulle grandi distanze. Alla fine di ogni suo romanzo indica il tempo che ha impiegato a scriverlo o, meglio, a darlo per “definitivamente incompiuto”, come leggiamo al termine di Io confesso. E possiamo vedere che questo arco di tempo è composto sempre di svariati anni.
Ma, come afferma nell’epilogo di Quando arriva la penombra, mentre è impegnato nella scrittura dei suoi romanzi, ogni tanto se ne discosta per scrivere qualcos’altro – un’idea, un racconto –, come spinto dalla necessità di prendersi una pausa dal materiale su cui sta lavorando. Poi mette tutto da parte. E così il suo “sacco dei racconti” si riempie. È anche o soprattutto da qui che lo scrittore attinge quando decide di pubblicare un libro di racconti.
Nell’epilogo di Quando arriva la penombra Cabré spiega, a grandi linee, qual è stato il processo di selezione dei testi inclusi nella raccolta, ma la cosa più importante è il criterio generale che a suo giudizio deve presiedere a un volume di questo genere: i racconti, anche se scritti in periodi molto diversi o riguardanti tematiche non affini, devono avere un legame tra loro, un’atmosfera, una certa “aria di famiglia”. E questo legame è fatto di rimandi, echi, oggetti che si ritrovano in più racconti, personaggi di una storia che fanno capolino in un’altra, allusioni o espressioni che ricorrono in testi diversi, dando coerenza e compattezza alla raccolta.
Il traduttore deve dunque affinare l’orecchio per cogliere questi segnali e riprodurli nella sua versione. Ma c’è di più: spesso i richiami si allargano all’insieme dell’opera dell’autore ed è molto importante saperli riconoscere. Immergersi nella scrittura di Cabré richiede al traduttore di non abbassare mai la guardia.
Le caratteristiche essenziali della sua narrativa sono un linguaggio all’apparenza semplice, ma anche espedienti linguistici e sintattici che gli consentono di creare accostamenti, cambi di prospettiva e salti temporali che al lettore risultano estranianti e naturali al tempo stesso, l’uso del discorso colloquiale accanto a quello di immagini evocatrici, metafore dalla forte carica espressiva. “Evocazione” è forse, per la scrittura di Cabré, la parola chiave. Ed è quell’evocazione, quel dire senza spiegare tutto, che il traduttore deve saper riprodurre.
Quando arriva la penombra pone inoltre al traduttore, a mio parere, una particolare difficoltà insita in ogni libro di racconti.
Quando traduciamo un romanzo ci immergiamo in un universo da conoscere, decodificare e ricodificare; per quanto il romanzo sia corale e complesso, per quante voci e registri contenga, stiamo lavorando su una struttura unica. In un libro di racconti entriamo, a ogni testo, in un nuovo universo, dove le elisioni, il non detto di ogni storia, di ogni personaggio, è molto di più. A ogni racconto, il traduttore deve fare quel fondamentale esercizio di immersione, decodificazione, ricodificazione.
Da un punto di vista strettamente linguistico, vorrei segnalare un punto particolare.
In Poldo il narratore-protagonista racconta la sua storia nella parlata del Pallars, una zona dei Pirenei. Nel tradurlo, mi sono posta l’eterna questione di come riprodurre i dialetti in traduzione. Il personaggio viene da una famiglia di contadini, ma decide ben presto di dedicarsi a tutt’altra attività, specializzandosi nel furto di pecore. La storia si svolge nelle vallate del Pallars che, come molte zone di montagna, sono sempre state teatro di storie di contrabbando o di resistenza durante e dopo la guerra civile. Aveva senso tradurre quella parlata con il dialetto di una zona di montagna italiana? Certamente avrebbe dato più colore al racconto, ma avrebbe creato uno sfasamento rispetto ai riferimenti geografici e storici che contiene. Abbassare il registro? Inserire errori di sintassi? Avrebbe reso il personaggio una ridicola macchietta. Rimanendo dunque nell’ambito dell’italiano “comune”, ho deciso solo di mantenere il suo tono astuto e sfrontato e, soprattutto, il turpiloquio fluido e simpatico (e qui ci sarebbe da aprire una bella parentesi sull’uso del turpiloquio in catalano e, di conseguenza, sulla sua traduzione in italiano).
Poldo, però, fa una nuova brevissima comparsa, appena accennata, alla fine di un altro racconto. In catalano il personaggio si riconosce perché pronuncia una frase intera nella sua parlata. In italiano mi sono dovuta affidare a un’unica espressione che lo identificasse.
Nel suo racconto, Poldo usa spesso espressioni come cogondéu, cagondeuna, cagonseula, che sono storpiature più o meno eufemistiche di una bestemmia, molto comuni nel linguaggio colloquiale e da me variamente tradotte anche secondo il contesto. In questo caso ho pensato di utilizzarle per caratterizzare il personaggio. Ma in italiano avevo la sensazione che qualsiasi storpiatura di bestemmia risultasse comunque più rude e volgare alle orecchie del lettore rispetto al catalano. Dopo vari tentativi e ripensamenti, ho scelto infine l’espressione “Miseria boia!”, da mettere in bocca a Poldo ogni tanto durante il suo racconto e da fargli poi ripetere nella sua breve ma importante comparsa successiva. Mi è sembrata un’imprecazione non troppo marcata geograficamente, dal suono pieno e scorrevole (come sento quella catalana), non tanto comune quanto quella dell’originale, ma proprio per questo dotata della giusta dose di riconoscibilità. Sarò riuscita nel mio intento?