Cani Selvaggi, la cui vicenda è ambientata in una cittadina canadese dell’Ontario, è un romanzo di taglio spiccatamente moderno che, oltre ad affrontare la questione cruciale del rapporto natura-cultura, affronta un tema «classico», quello dell’amore, indagato in una miriade di sfaccettature: l’amore tra umani, tra animali, l’amore romantico e passionale, l’amore (e la sua mancanza) nella coppia, e tra genitori e figli. E lo indaga con il linguaggio di una prosa altamente poetica. È questa la cifra più caratterizzante della scrittura di Helen Humphreys, una scrittura secca, limpida e precisa, ma anche ricca di suggestione e non esente da una buona dose di simbolismo. «Essere selvaggi», racconta Alice – protagonista e alter ego dell’autrice – «significa non poterlo raccontare», perché vivere d’istinto è l’esatto contrario del vivere di immaginazione. Eppure lei ci riesce brillantemente, grazie al linguaggio evocativo della sua prosa poetica. Cani Selvaggi è un romanzo apparentemente semplice, definibile come il risultato di un’operazione di «semplificazione della complessità». A cominciare dalla struttura narrativa, che consiste in sette sezioni ognuna delle quali narrata da altrettanti personaggi del romanzo.
La vicenda ci viene presentata secondo diverse angolature che coincidono con il punto di vista di tre donne e quattro uomini, profondamente diversi per età, cultura e esperienza di vita. E se il punto di vista privilegiato è quello di Alice, cui tocca il compito di introdurre il lettore nella storia, va notato che tutte le voci narranti sono inevitabilmente filtrate attraverso la sensibilità dell’autrice, che funge da regista, rispettandone i diversi registri linguistici. È soprattutto in virtù di questa particolare struttura narrativa che la traduzione a quattro mani ci è subito apparsa appropriata e per niente rischiosa. Per di più, le impressioni scambiate dopo la prima lettura ci hanno convinto che il confronto e la negoziazione delle necessarie scelte linguistiche e stilistiche avrebbero favorito una resa in lingua italiana il più possibile rispettosa della musicalità del linguaggio e dei significati sottesi alla apparente semplicità del testo.
Dopo esserci divise i personaggi, ci siamo messe al lavoro con la confortante consapevolezza di poter contare l’una sull’altra ogniqualvolta ci fossimo trovate in dubbio tra più soluzioni. Un motivo di confronto e discussione, che fin dall’inizio ha appassionato entrambe, è stato quello legato al problema spinoso della resa dei tempi verbali. Va sottolineato che, oltre a prediligere – come molti altri scrittori di lingua inglese – la paratassi, Helen Humphreys fa largo uso dell’indicativo presente in alternativa al passato remoto, con il risultato di rendere il testo apparentemente più semplice e immediato. D’altro canto, ricorre ampiamente al passato remoto soprattutto in quelle parti caratterizzate da un registro linguistico più elevato. Ad esempio, nella scena del bar, dove la protagonista racconta il suo innamoramento per Rachel, la «donna dei lupi», imitando lo stile tipico del romance. È stato, quindi, necessario trovare dei compromessi e operare scelte mirate, caso per caso, per non alterare la naturalezza e l’attualità del linguaggio, nel rispetto della coesistenza di diversi registri linguistici.
Il nostro obiettivo principale è stato, infatti, quello di riscrivere nel modo più fedele possibile un testo apparentemente semplice, caratterizzato da scelte lessicali legate alla contemporaneità ma inserite in un tessuto narrativo il cui registro linguistico generale, al di là delle differenze tra le diverse voci narranti, è indiscutibilmente elevato. In termini più particolari, molto altro ci sarebbe da dire circa le innumerevoli scelte lessicali sulle quali ci è capitato di discutere per ore al telefono, finché non abbiamo trovato i vocaboli giusti e le giuste assonanze. Questo vale in particolare per Lily, forse il più memorabile e poetico; come anche la preghiera-poesia dedicata a Rachel, che chiude il primo lungo pezzo di Alice.