Se avessi potuto lo avrei riportato in vita. Sì, avrei preso Miguel Delibes e lo avrei resuscitato perché Cinque ore con Mario è uno di quei libri che andrebbero tassativamente tradotti con la collaborazione dell’autore. Ma lui, Delibes, non ne ha voluto sapere di tornare nel mondo dei vivi. E io ho cercato di farlo rivivere attraverso un’opera nella quale ho finito per immergermi con tutto me stesso.
Già, perché a volte non basta la tecnica, non bastano le sfumature linguistiche, non basta comprendere lo spirito di un’epoca e di una classe sociale che si esprimeva con un linguaggio ricco di modismi, pretenzioso in molte sue espressioni e sgangherato in altre, non basta riuscire a ricostruire l’ambiente un po’ gretto e un po’ ingenuo della piccola borghesia spagnola di provincia che si è lasciata alle spalle la guerra per consegnarsi fiduciosa nelle braccia del franchismo e assiste sospettosa al nascere dei primi segnali di modernità. No, tutto questo non basta, anche se è vero, come hanno scritto quasi tutti i critici, che il romanzo sociale del Novecento spagnolo raggiunge con quest’opera una delle sue vette più alte, soprattutto per la struttura complessa di un linguaggio nel quale, volendo, puoi trovare tutte insieme le figure retoriche più alte e le banalità più sciatte.
Tutto questo, si diceva, non basta. Per tradurre o sperare di tradurre degnamente Cinque ore con Mario bisogna calarsi fino in fondo nell’anima della protagonista. Bisogna sedersi ogni giorno alla propria scrivania e pregare che una improvvisa mutazione genetica ti trasformi in donna Carmen Sotillo, ti infili nei suoi maglioni sempre troppo stretti sul seno, ti faccia provare lo stesso senso di sdegnata incomprensione nei confronti dei figli e soprattutto ti faccia sentire la stessa rabbia sorda, la stessa vaga tenerezza, lo stesso rancore, la stessa nostalgia nei confronti di quel marito, steso sul suo letto di morte che ormai (la protagonista lo pensa con un filo di malcelata perfidia) adesso è costretto ad ascoltarla.
La grandezza e la difficoltà della traduzione sta tutta qui. Nella valanga di sentimenti contrastanti che Carmen riversa sul marito morto che si intersecano, si susseguono quasi senza soluzione di continuità e a volte finiscono per essere tutt’uno, perché le sfumature tra lo sdegno e il rimprovero bonario a volte è talmente sottile da essere quasi indistinguibile. Ecco allora che il monologo di donna Carmen diventa per il traduttore un esercizio arduo, un percorso fatto di accelerazioni potenti e di frenate improvvise, di attimi di furore e dolcissimi ricordi. Per questo non è facile trovare il registro giusto senza diventare tu stesso Carmen, senza avere amato o odiato, senza avere accumulato delusioni e rancori. Senza aver desiderato invano di essere ascoltati. In questo groviglio inestricabile di sentimenti sta la vera difficoltà del lavoro del traduttore. Certo, la fraseologia è particolare, la ripetitività di certi modi di dire ossessiva, i periodi interrotti e sincopati, il ritmo irregolare come il battito di un cuore impazzito. Ma nulla, in questo caso, è così improbo, come lasciarsi trascinare dalla valanga di sentimenti di quella donna che consuma, davanti al cadavere del marito, la propria tardiva vendetta verbale.