Confesso di aver avuto una fortuna sfacciata: tradurre Ben Markovits mi ha riconciliato con la parte di me che ha sprecato ore e ore su internet a studiare i tabellini della Nba, o davanti alla tv, da adolescente, quando le sintesi si guardavano su Telemontecarlo e ogni settimana ripassava sullo schermo il tiro vincente di Jordan contro Cleveland. La sua furibonda esultanza era l’immagine di tutto quello che avremmo voluto conquistare anche noi, ragazzini italiani, magari tifosi di calcio.
Ma andiamo con ordine. Un gioco da grandi è il racconto di una stagione cruciale, in bilico tra giovinezza e maturità. Potremmo definirlo banalmente una storia di formazione, un percorso iniziatico, un viaggio alla ricerca delle proprie radici. Ma quel che conta è che il rito di passaggio qui si svolge sui campi da basket – quelli dei «grandi», della seconda divisione tedesca dove si battono russi, croati, americani, studentelli o veterani scartati dalle leghe di mezza Europa. Il protagonista, Ben, è un ventiduenne texano («alto come Michael Jordan») che ha fatto il Bar mitzvah ma non è ebreo, ha ereditato dal padre la passione per lo sport ed è cresciuto ammirando in tv le prodezze del più grande cestista della storia.
Devo ammettere che all’inizio non è stato semplice prendere le misure alla prosa asciutta di Markovits, al suo stile spigoloso, stratificato, carico di risonanze e ambiguità. Lui non va mai alla ricerca della frase a effetto, dell’azione spettacolare, neanche quando racconta le partite, gli allenamenti, l’adrenalina che si sprigiona sotto canestro. Ben (il personaggio) si muove assorto tra gli spazi del suo piccolo mondo – l’appartamento in collina, la palestra, il pullman della squadra su cui scroscia invariabilmente la pioggia – e li scandaglia soffermandosi su tutto quello che attrae la sua curiosità, compagni, avversari, stati d’animo, frasi non dette, la sagoma di una ragazza incorniciata da una finestra, «la tensione che emana dall’odore dei corpi» degli atleti, «la pressione delle voci» dei tifosi che si insinuano tra i muri dell’impianto fino a raggiungere gli spogliatoi. La percezione vivida, sensoriale, delle cose è sempre filtrata dal distacco quasi scientifico con cui analizza lo scorrere della vita, dentro e fuori dal campo.
Ad un certo punto ho capito che la chiave del mio lavoro doveva essere il basket. È stato Ben (l’autore) a confermare questa intuizione, durante la nostra corrispondenza via email. Rispondendo con pazienza alle mie domande, mi ha regalato alcune preziose riflessioni sul suo modo di «scrivere lo sport»: per mezzo di espressioni icastiche e costellazioni di parole che potresti sentire su qualsiasi campetto, immediatamente comprensibili per chi abbia giocato, o conosca il gioco, ma tali da formare una sorta di «poesia astratta» per chi ne ignora il significato tecnico. Evitando le metafore esplicite, televisive, intenzionalmente poetiche. L’esattezza e la sonorità del gergo del basket, con cui Ben (autore e personaggio) descrive le azioni, gli schemi, i pensieri dei giocatori – l’anatomia dell’esperienza sportiva nel suo dispiegarsi concreto –, si irradia per cerchi concentrici fino ad abbracciare l’intero spettro della narrazione. Nel flusso del gioco, il senso di fallimento e l’ammirazione sono un’unica cosa: alla consapevolezza dei propri limiti Ben ci arriva quando comprende per la prima volta la portata del talento di Karl. E quello che prova è un attonito stupore. Un senso quasi di meraviglia – mi ha spiegato Ben (perché capissi davvero) –, come davanti all’ultimo tiro vincente di Jordan contro gli Utah Jazz.