Nei primi anni Settanta la letteratura colombiana sembrava riassumersi in modo esemplare in un unico nome, universalmente noto: Gabriel García Márquez, e nella corrente del «realismo magico». Solo «pochi buoni amici», come recita il titolo del film-documentario del regista Luis Ospina, conoscevano allora gli scritti di Andrés Caicedo, il quale del resto non fece granché per conquistare la fama, poiché si suicidò a soli 26 anni, il 4 marzo 1977, il giorno dopo la pubblicazione del suo romanzo Viva la musica! Il libro a poco a poco divenne un cult, ebbe varie edizioni e cominciò a filtrare fuori dei confini della Colombia. (In Italia uscì tempestivamente per Sugarco.) Di recente lo scrittore cileno Alberto Fuguet, che nel 1996 pubblicò l’antologia-manifesto McOndo – la prima levata di scudi dei giovani scrittori latinoamericani contro la tradizione del realismo magico in nome di una narrativa urbana –, ha riscoperto l’opera di Caicedo, coniando per lui la definizione di «Kurt Cobain della letteratura colombiana».
Viva la musica! è il racconto in prima persona dell’iniziazione di María Carmen, una giovane liceale di Cali, alla musica, al sesso e alla droga. Siamo negli anni Settanta, tutto il mondo è paese e come i suoi coetanei europei María Carmen, pur senza conoscere l’inglese, stravede per i Rolling Stone e il rock, finché non scopre la salsa, le feste, il ballo e lo sballo. Su queste passioni costruisce e rivendica la propria fragile identità, abbandona le comodità e il lusso del suo mondo borghese e imbastisce avventure e disavventure che la trascineranno sempre più in basso, fino a spingerla sul marciapiede. Ma se questa è in estrema sintesi la trama del romanzo, l’intenzione dell’autore-narratore non è certo moralistica: Caicedo rivendica in pieno il ribellismo giovanile fino alle nichilistiche, estreme conseguenze. Il suo programma è: non diventare mai adulti, non piegarsi a nessun compromesso. Fino alla tragica conclusione del suicidio, destinata a creargli un’aura leggendaria di «maledetto».
La scrittura di Caicedo – appassionato cinefilo e musicofilo che scriveva vertiginosamente sperimentando nuove forme testuali, spesso frammentarie, ma rivolgendosi sempre al pubblico dei suoi coetanei, alla «sua gente» –, è infarcita di espressioni dialettali, neologismi e termini gergali in uso all’epoca negli ambienti giovanili marginali. La punteggiatura naturalmente è approssimativa, abbondano i flussi di coscienza della protagonista, con immagini deformate dalle droghe, e in molti passi vengono intercalati nel testo, senza soluzione di continuità, versi delle canzoni di salsa. Sarebbe stato impossibile per me individuare queste citazioni (confesso che ho ascoltato più salsa durante il lavoro di traduzione che in tutta la mia vita) senza l’ausilio offerto dal saggio Andrés Caicedo o la muerte sin sosiego, di Sandro Romero Rey, che ricostruisce puntualmente il soundtrack del romanzo.
Soprattutto, una dichiarazione mi ha sottratto a un vero e proprio incubo. Nei testi delle canzoni di Richie Ray e Bobby Cruz – il loro leggendario concerto a Cali è raccontato in Viva la musica! – compaiono frasi e termini misteriosi, nello slang dei portoricani e nel dialetto ñañinga, una setta segreta africana presente a Cuba. Scrive Romero Rey: «Con Richie e Bobby ho mantenuto un dialogo fraterno nel corso degli anni e furono loro stessi a dirmi, in un’intervista per il mio documentario Sonido bestial, che non sapevano di preciso che cosa stavano cantando né conoscevano il significato dei testi delle canzoni». Come si può immaginare, ho tirato un sospiro di sollievo e ho lasciato certi termini nell’originale senza provare più sensi di colpa. Cercando semplicemente di dare conto, nell’avvertenza al lettore e nelle note, di queste particolarità.
Devo anche dire che per la prima volta ho avuto, e non di rado, la sgradevole esperienza di cercare un termine in rete per scoprire che l’unico rimando era… al testo originale del romanzo. E ho cominciato a disperare quando alcuni amici colombiani interpellati in proposito mi hanno risposto che non potevano aiutarmi perché erano di Bogotá, mentre Viva la musica! è scritto nel dialetto di Cali. Alla fine, grazie a un brainstorming fra Romero Rey, Luis Ospina e una sorella dell’autore, calegni doc, sono riuscito a sciogliere gli ultimi dubbi.
L’altro scoglio principale consisteva nel rendere, senza cercare di «aggiornarlo», il colorito linguaggio giovanile degli anni Settanta, ma in questo caso sono ricorso semplicemente alla mia esperienza personale, perciò non posso barricarmi dietro le oggettive difficoltà del testo per giustificare eventuali stonature.