Capita a volte, soprattutto nei testi in cui più intensa è la presenza dell’autore, di veder affiorare qua e là una spia che rivela la posizione di chi scrive nei confronti della traducibilità della sua pagina, o comunque la consapevolezza che la questione esista. Allora può diventare divertente collezionare questi indizi, cercando di capire se per lui/lei il testo prodotto è un punto di arrivo definitivo o se ammette spazio per ripartenze e riusi: per interpretazioni che non siano esclusivamente quelle, private, del singolo lettore ma quelle per così dire più ufficiali di una traduzione. È un gioco, s’intende, e quindi operativamente del tutto futile (come lo sarebbe pretendere che una trovata sintonia psicologica con l’autore ti guidi come un pilota automatico attraverso la traduzione), però è divertente e ti dà modo di aprire una specie di dialogo alla pari con l’autore, un confronto di posizioni né arrogante né sottomesso.
E con Da Parigi alla luna, anche in questo, il divertimento è assicurato. Adam Gopnik sa bene di cosa parla quando parla della lingua e di convivenza/pluralità di lingue e culture: questo non solo è il tema fondante del libro, ma riguarda lui personalmente, costituzionalmente. Nato a Philadelphia dove i suoi antenati di lingua yiddish sono immigrati, cresce a Montréal, la terza città francofona del mondo... e una delle città più multietniche del Nord-America (Wikipedia), quindi va a vivere e lavorare a New York; sua moglie è franco-canadese; quando nasce un bambino i due decidono di regalargli un’infanzia parigina: ottenuto dal New Yorker l’incarico di corrispondente nella capitale francese, di lì per cinque anni manderà notizie di ciò che accade in Francia.
E che parli di politica, cronaca, arte, letteratura, sport, shopping, moda, sentimenti, Gopnik non trascura mai di puntare il riflettore sul nesso forte tra lingua e cultura, a volte accostando a volte sovrapponendo in trasparenza quelle dei suoi due mondi – il paese da cui viene e quello in cui vive. E così le differenze si presentano su piani diversi e successivi, spesso stratificati, incrociandosi nelle possibili combinazioni tra le parole e le cose, tra le parole e le parole, tra le cose e le cose (cose «che sono quasi le stesse ma non proprio le stesse»: una pharmacie non è esattamente un drugstore, una brasserie non è esattamente un coffee shop, ma anche un pranzo non è esattamente un pranzo); tra l’immagine che il parlante ha della posizione linguistica propria e dell’altro (il turista anglofono sbalordito che esista qualcuno che non lo capisce; gli adulti – americani – che giudicano carinissimo il bambinetto – americano ma vissuto sempre a Parigi – che parla senza la minima leziosità di croissant e confiture); tra la parola e la parola stessa (l’appagante fatica di entrare nell’umorismo dei francesi, dove un’affermazione vuole essere contemporaneamente seria e scherzosa, e sta a te imparare non a distinguere le due cose ma a recepirle insieme).
Parlando di cucina ed elettrodomestici, Gopnik dice che fish and plugs are the two great differences, le due cose che non sono mai quite alike, mai del tutto uguali tra paese e paese. Pesci e spine... Qui, lui non lo sa, ma in italiano in questo accostamento c’è un gioco di parole e in inglese no, e penso che la cosa gli piacerebbe. Ho avuto la tentazione di raccogliere l’invito, ma poi ho deciso di lasciar perdere e aggiungere un elettriche; mi sarebbe sembrata, non so, un’indelicatezza.