Spesso una N.d.T., quando non è figlia di pignoleria filologica, per il traduttore rappresenta una sconfitta. Una bandiera bianca su cui è scritto “Questa non saprei proprio come tradurla, ve la devo spiegare”.
E anche in questo suo terzo romanzo – il secondo di argomento storico – Youssef Ziedan ha offerto più volte la tentazione di alzare questa bandiera bianca.
Guidare con sicurezza il lettore nel mondo di un passato col quale potrebbe non avere familiarità non è di per sé cosa facile, ma il tutto viene complicato da una specie di sovrapposizione linguistica interna alla voce narrante.
Già in Azazael, la iniziale premessa del traduttore (in realtà dell’autore) spiegava che la narrazione era costituita dalla traduzione in arabo di un manoscritto siriaco, per cui, pur nella finzione del romanzo, il traduttore italiano si trovava a dover tradurre una traduzione, in cui era necessario tenere presente il sostrato siriaco – che Ziedan sicuramente sottendeva.
Nabateo, lo Scriba, costruito invece secondo lo schema della narrazione orale tradizionale araba, si dichiara esser stato raccontato in arabo direttamente dalla protagonista, Marya, la quale però, essendo nata e cresciuta nelle campagne dell’Egitto dei primi anni del VII sec., si espresse per tutta la sua prima vita in copto, e anzi l’apprendimento della lingua araba con tutte le sue sottigliezze costituisce un momento importante delle sue vite successive.
«Gli Arabi le zanzare le chiamano mosche e anche le mosche le chiamano mosche… A noi ci chiamano copti, e il nostro paese lo chiamano Misr, mentre noi da migliaia di anni lo chiamiamo Kimi».
«Qui il prete lo chiamano kahno, invece che kahin, perché mettono sempre la “o” alla fine dei nomi».
«Mio marito si preparava a entrare nella nuova religione. La chiamano Islam, “sottomissione”».
Casi come questi, frequentissimi nel romanzo, ci fanno sorgere il dubbio di cosa lasciare in originale e di quanto invece andrà irrimediabilmente perduto in traduzione.
Eppure questo non è solo un cruccio da traduttore o un mero problema linguistico. È in fondo anche una delle (tante) cifre del romanzo di Ziedan.
«Gli Arabi arrivarono da lontano in un giorno caldo in cui non si diffondeva neanche un raggio di sole, e mi fidanzarono a uno di loro».
È questo l’esordio che riassume il senso del momento storico che visse l’Egitto – e non solo – in quegli anni: cioè quando una civiltà, quella araba, che da secoli viveva ai margini degli imperi “avanzati”, rinvigorita dalla linfa religiosa della nuova profezia, giunse a sovrapporsi inesorabilmente ad essi con un matrimonio che avrebbe cambiato la storia. E la metafora del matrimonio in questo caso è davvero calzante. Matrimonio “all’orientale”, ovviamente, dove a contare non sono sempre i sentimenti.
E non è un caso che Ziedan affidi questa metafora a una protagonista femminile, visto che già nel suo primo romanzo (Zill al-af‘a, “L’ombra della vipera”) aveva dimostrato di avere a molto cuore la questione femminile, soprattutto dal punto di vista antropologico e culturale.
La quotidianità di Marya, diventa nel romanzo l’occhio privilegiato con cui guardare a un mondo, quello dell’Arabia preislamica, pagano eppure attraversato da ogni sorta di fermenti culturali e religiosi, destinato a scomparire repentinamente per trasformarsi nostalgicamente in un retaggio leggendario.
Un’ultima nota va messa sul titolo. Ziedan, lo ha ammesso, dando ai suoi romanzi titoli riferiti a personaggi di fatto secondari (almeno in apparenza) vuole sviarci. Qui il titolo originale era semplicemente Il Nabateo, ma siccome a un pubblico italiano un titolo simile avrebbe evocato tutt’altro immaginario, l’editore ha deciso di personalizzarlo ulteriormente, sviando così ancor di più l’ignaro lettore.