Ho saputo che stai traducendo l’ultimo libro di Jenny Erpenbeck. Complimenti! Sono curioso di sapere come te la sei cavata con il titolo: così, con un sottofondo di quella che i tedeschi chiamano Schadenfreude, concludeva la sua mail un amico e collega, mentre io ero alle prese con la traduzione di Heimsuchung.
Heimsuchung appunto, così suona il titolo in tedesco e la curiosità era più che legittima, anche perché io in quel momento ero all’oscuro di quale sarebbe stata la mia traduzione. Che sollievo libri come Doctor Faustus, o La peste o Moby Dick! Sulla prima pagina puoi scrivere subito il titolo tradotto, grazie al quale si spezza almeno in parte il blocco psicologico dell’attacco.
Ma non tutti i titoli sono così facili, alcuni sono difficili da tradurre, altri proprio impossibili, e Heimsuchung è uno di questi. Il sostantivo, così come il verbo correlato heimsuchen, ha alcune traduzioni specifiche, a partire da perquisizione a domicilio e perquisire, da visita e far visita, per passare all’espressione del linguaggio religioso visitazione (la visita di Maria alla cugina Elisabetta) e finire con connotazioni negative, quali disgrazia, tribolazione (particolarmente percepiti nella forma verbale, dove la traduzione è solitamente funestare, affliggere, etc.). Inoltre la composizione di questa parola, fatta di heim e suchen (dove heim è casa, il focolare domestico, il luogo natale e anche il prefisso per verbi, azioni che riguardano lo stare, il tornare a casa, mentre suchen è cercare ciò che non si ha, in questo caso lo heim, la casa), ci fa intendere tutto il concentrato evocativo, racchiuso nelle undici lettere di questa parola, che permea di sé il libro della Erpenbeck.
La questione del titolo è stata quindi rimandata a fine lavoro, nella speranza di trovare, nel più profondo contatto con questa storia e con questa scrittura, un’espressione altrettanto pregnante. Direttamente dal testo non è emerso nulla però, al di là di espressioni puramente descrittive e piuttosto banali come La casa nel Brandeburgo. Ma la fedeltà a Jenny Erpenbeck mi imponeva di muovermi sulla sua stessa linea evocativa di un’atmosfera, di un’idea della natura e della vita, seguendo la vicenda di questa proprietà nel nord-est della Germania che, lungo un secolo di storia tedesca, passa di mano in mano, a seguito di eredità, di vendite e di espropriazioni, diventando specchio della transitorietà del tutto.
In quella lettura di scavo che è la traduzione – impegnata com’ero nella resa dei più vari registri linguistici e stilistici di cui fa uso questa autrice, nell’aderenza alla sua scrittura per lo più paratattica e nell’obbligo di lasciar scorgere, senza mai pienamente palesare, l’allusività dell’omissione voluta – mi sono immersa in questo flusso del tempo che scorre, dei tanti luoghi anche fisicamente di passaggio tra un ambiente e l’altro, nelle figure del libro su cui la storia e la natura lasciano la loro più o meno fugace impronta, e ne ho ricavato: Di passaggio. Jenny Erpenbeck si è ritrovata in questo nuovo titolo della sua opera. E io ho consegnato la mia traduzione con una mezza sconfitta e una mezza vittoria: aver dovuto cedere le armi di fronte alla parola Heimsuchung ed essere riuscita a trovare un’espressione abbastanza evocativa per intitolare in italiano questo libro di grande forza e bellezza.