Nell’arco di poco più di un anno, mi sono trovata nell’insolita e fortunata posizione di tradurre un romanzo e quindi i dialoghi del film che ne è stato tratto.
Parlo di Passing, romanzo breve di Nella Larsen pubblicato originariamente nel 1929 e uscito nel 2020 per Frassinelli con il titolo Due donne, e del film omonimo, diretto da Rebecca Hall, in italiano nella versione diretta e adattata da Eleonora De Angelis.
Poco più di una meteora nella realtà editoriale dell’epoca, il romanzo di Nella Larsen è stato rivalutato dalla critica negli ultimi decenni, ed è ora considerato un piccolo classico della letteratura afroamericana. È incentrato sul fenomeno del passing: in un’America in cui bastava una sola goccia di sangue nero per essere legalmente considerati neri, e pertanto soggetti a un sistema di leggi discriminatorie, si stima che furono centinaia di migliaia i neri dalla pelle chiara che scelsero di «passare», cioè di presentarsi come bianchi e vivere nella società in quanto tali.
Così ha deciso Clare, una delle due protagoniste della vicenda, addirittura sposata con un bianco razzista, John Bellew, mentre l’amica Irene si limita a «passare» di tanto in tanto, per convenienza, ma è sposata con Brian Redfield, un medico dalla pelle scura, e vive a Harlem, definita in quegli anni «la capitale mondiale dei neri», centro di una vita culturale intensa e animata. In seguito a un incontro casuale dopo oltre un decennio di lontananza, Clare riallaccia i rapporti con Irene e attraverso di lei riprende a frequentare la comunità afroamericana, nonostante il pericolo di essere scoperta. Irene si convince che Brian abbia intrecciato una relazione con l’amica, e contribuisce involontariamente a smascherarla con il marito; quando Bellew irrompe a una festa accusando Clare di avergli mentito, Irene corre verso l’amica, le sfiora il braccio – la spinge, forse? – e Clare cade dalla finestra, morendo sul colpo.
Al di là dell’intreccio, che riprende un tema abbastanza comune nella letteratura afroamericana, l’interesse e il fascino del romanzo stanno nella sottigliezza dell’analisi psicologica delle protagoniste (Irene soprattutto, giacché la narrazione è filtrata attraverso il suo punto di vista), nella sapiente costruzione narrativa, nella molteplicità dei livelli di lettura possibili (il tema razziale, per esempio, secondo alcune letture critiche cela un sottotesto potente, quello dell’attrazione erotica tra Clare e Irene), come pure nell’ambiguità degli avvenimenti, che induce chi legge a interrogarsi, e a decidere poi per conto proprio, sui tanti punti lasciati volutamente in sospeso. Ma forse l’aspetto per il quale può colpire di più chi lo legge a novant’anni di distanza è il modo in cui mette in crisi l’identità delle protagoniste: Clare, all’inizio trionfante e soddisfatta dell’esistenza che si è costruita, rivela la profondità della propria nostalgia per ciò che ha perduto e il desiderio feroce di ritornarvi, a dispetto di ogni rischio; Irene sente vacillare la vita sicura e prevedibile in cui si cullava (volutamente cieca all’insoddisfazione di Brian e alle feroci violenze contro i neri), viene spodestata dall’amica nella propria cerchia sociale e addirittura negli affetti famigliari, perde la lucidità al punto da non sapere – o meglio, non voler ricordare – neppure lei stessa che cosa sia accaduto davvero prima della morte di Clare. Passing è quindi un romanzo molto moderno, che riverbera nella mente come un sasso gettato in uno stagno, prestandosi a continue riletture in cerca di nuovi significati.
Proprio per questo, se da un lato mi ha emozionato scoprire della trasposizione cinematografica di un testo a cui mi ero dedicata intensamente così pochi mesi prima, dall’altro temevo sarebbe stato arduo rendere sullo schermo tutte le sue sfumature. Non so quali impressioni possa suscitare nello spettatore che non abbia mai letto il libro, ma da lettrice trovo che Rebecca Hall – autrice anche della sceneggiatura originale – sia riuscita in pieno nell’intento, nonostante alcune, forse inevitabili, semplificazioni.
Oltre all’interpretazione intensa delle due protagoniste, ho apprezzato la ricostruzione minuziosa dell’ambientazione, curata non solo nei dettagli di set e costumi, ma anche nei riferimenti (la rivista che legge Irene, il linciaggio di John Carter citato da Brian, l’album da disegno desiderato da uno dei figli della coppia). Ma l’elemento più importante, il perno della poetica del film, è senz’altro la scelta di girare in bianco e nero: non solo per l’estetica delle inquadrature e i significati simbolici che evoca, ma anche per l’impatto visivo che provoca, forse quanto di più vicino all’irrilevanza del colore della pelle vagheggiata, in narrativa, da un monumento della letteratura afroamericana come Toni Morrison. (A quanto pare, in questo senso la provocazione è riuscita: come ha scritto Alexandra Kleeman sul New York Times, il trailer del film ha suscitato accese discussioni online sia sulla capacità delle due attrici di «passare» veramente per bianche, sia sulla ben nota preferenza di Hollywood per attori e attrici di colore ma dalla pelle chiara, mostrando ancora una volta come le categorie razziali continuino a influenzare il discorso pubblico negli Stati Uniti.)
Rispetto al romanzo, il film semplifica e condensa nel tempo l’intreccio, spostando integralmente l’ambientazione a New York (mentre nel libro le due protagoniste sono originarie di Chicago), e si concentra sulla vicenda principale, conservandone le sottigliezze e le possibilità interpretative. La prospettiva di Irene è resa tramite particolari effetti cinematografici (sonoro ovattato, sfocature ecc.) e attraverso l’inserimento di alcuni dialoghi ed episodi rivelatori ad hoc, come il vaso di fiori che Irene fa involontariamente cadere dal davanzale mentre parla con Clare, in un momento di turbamento. Alcune scene domestiche, aggiunte rispetto al libro, danno più corpo al personaggio di Brian e alle figure dei figli. La musica scandisce la narrazione, con un tema ricorrente che sottolinea il trascorrere del tempo. La scelta del formato 4:3, caratteristico del cinema anni Venti e Trenta, fa risaltare i volti delle protagoniste e la loro espressività. Tutti questi elementi fanno di Passing un film raccolto, discreto, suggestivo, che richiede uno sguardo attento e partecipe per essere compreso nelle sue diverse sfumature: proprio come il romanzo.
Mi sono accostata al testo di Nella Larsen verso la fine del 2019, quando mi è stato proposto di ritradurlo per Frassinelli (era già stato portato in Italia nel 1995 da Anna Maria Torriglia per Sellerio). Ho scelto di lavorare per il pubblico contemporaneo, tenendo conto della mutata sensibilità, anche nel nostro Paese, nei confronti di alcuni temi e di alcuni termini. Di conseguenza, in particolare, ho deciso di riservare negro per la traduzione di nigger, usando nero o di razza nera per tradurre Negro e black. D’altra parte, al di là delle singole scelte lessicali, questo era un romanzo incentrato su un fenomeno di certo poco noto in Italia, e carico di riferimenti, allusioni ed espressioni scherzose legati a una realtà esclusivamente statunitense. La via migliore per far percepire ai lettori italiani questo aspetto del testo – che consideravo una dominante –mi è sembrata quella della resa più aderente possibile, quando non del calco secco. A partire proprio da pass: sebbene in italiano sia più frequente il riflessivo farsi passare per, ho optato per mantenere la stessa struttura dell’inglese, passare per (e il passing è divenuto passare); questa piccola forzatura mi è stata utile nel contesto per non appesantire le molte frasi in cui compare, ma anche per rimarcare a livello linguistico la peculiarità di questo fenomeno. Analogamente, una traduzione quasi letterale mi ha permesso di mantenere il «sapore» delle espressioni figurate riferite specificamente agli afroamericani: tar brush è divenuto pennellata di catrame (ed è così rimasta un’eco del tar baby del folklore afroamericano, per chi volesse coglierla) , shine e sheba ‘muso nero’ e ‘regina di Saba’; nel caso di (go up) by nigger power ho aggiunto una microspiegazione, rendendo con (salita) con l’ascensore dei negri . Paradossalmente, mi sono invece trovata ad appiattire fay, non trovando un equivalente epiteto italiano colloquiale riferito ai bianchi. Purtroppo, non sono riuscita a non semplificare anche alcune espressioni comuni all’epoca della stesura del romanzo e nel frattempo divenute desuete, come butter-and-egg men o tripped the light fantastic, quest’ultima citata anche nel film.
In effetti, a livello linguistico, la sceneggiatura di Passing riprende molti dialoghi del libro, sfrondandoli qua e là con mano leggera. Evidentemente, nella traduzione per il doppiaggio ho lavorato a partire dalla mia versione del romanzo; in adattamento, poi, Eleonora De Angelis ha dovuto operare le modifiche necessarie per adattare le battute alla durata originale, ai movimenti delle labbra e all’espressività degli attori. Come spesso accade con i filmati in inglese – per via della natura più sintetica della lingua e, in questo caso, della velocità di eloquio delle protagoniste, soprattutto Irene – si è trovata più volte costretta a potare avverbi e giri di frase complessi. Se nella traduzione del romanzo, quindi, mi ero sforzata di mantenere la struttura dell’inglese, piuttosto complessa e ricca di incisi e di avverbi, che andavano a definire un ritmo narrativo pacato e meditativo, lo stile dei dialoghi cinematografici è risultato per forza di cose più asciutto e moderno, probabilmente ancor più in italiano che in inglese, sebbene si sia cercato di mantenere il tono generale.
Tornando al lessico, una differenza notevole rispetto al romanzo è, nel film, l’uso in originale di quella che ormai viene spesso chiamata «N-word»: se nel testo di Larsen nigger compare quattordici volte, nel film soltanto due, mentre altrove è sostituita da perifrasi («you-know-what») o lasciata intendere sospendendo la frase. In particolare, è stata molto attenuata l’invettiva finale di Bellew contro Clare: se nel romanzo l’apostrofa esclamando: «So you’re a nigger, a damned dirty nigger!», nel film la frase diventa: «You. Liar! You dirty liar!» Nella versione italiana, va da sé, il rispetto di queste scelte è stato totale: si tratta d’altronde di un segno dei tempi, e di come l’uso della parola nigger sia mutato al punto da diventare quasi tabù da parte di persone non nere, persino a livello di menzione neutra in ambito accademico.
Merita un discorso a parte il soprannome con cui Bellew chiama la moglie, Nig: abbreviazione di nigger in uso dai primi dell’Ottocento negli Stati Uniti, compare tra l’altro nel titolo del primo romanzo di un’autrice afroamericana, Our Nig, l’autobiografia di Harriet E. Wilson del 1859. Trattandosi di un elemento chiave della vicenda, è stato mantenuto anche nel film, seppur in un numero minore di occorrenze; in italiano, nel romanzo avevo adottato Negretta, per mantenere la struttura del termine inglese (un derivato di nigger) e il tono scherzoso con cui Bellew impiega l’epiteto. Tuttavia non ero pienamente convinta, soprattutto dal punto di vista della sonorità, e tradurre i dialoghi del film mi ha dato l’occasione di tentare un’altra strada: in accordo con l’adattatrice, ho mantenuto Nig, più secco e meno lezioso, confidando nella capacità dello spettatore di capirne origine e significato, e ne sono molto più soddisfatta. (Peraltro, ho scoperto poi che di recente è uscita per Lebeg la prima traduzione italiana di Our Nig, e i colleghi Mariacristina Cesa e Giuseppe Villella hanno fatto la stessa scelta, rendendo La nostra Nig.)
Nel libro come nel film, infine, è presente anche un elemento autobiografico: se Nella Larsen, figlia di padre caraibico e di madre danese poi risposata con un immigrato bianco come lei, era l’unica componente dalla pelle scura della sua famiglia, Rebecca Hall ha scoperto solo in età adulta di avere antenati afroamericani, e che anzi fu proprio suo nonno a decidere di «passare», creando un vuoto nella storia famigliare rimasto avvolto per decenni nel silenzio e nell’ambiguità. Forse anche per questo entrambe hanno saputo rendere con partecipazione e sensibilità la condizione precaria di chi vive su un confine, labile e in costante ridefinizione. E mentre, nel romanzo come nel film, Brian Redfield si interroga: «Se lo sapessi [perché chi sceglie di passare finisce sempre per ritornare alla propria comunità d’origine], saprei che cos’è la razza», nella trasposizione cinematografica Irene osserva: «’Passiamo’ tutti per una cosa o per l’altra», ampliando e rafforzando il messaggio di fondo di Larsen: cioè quanto sia insensato, oltre che nefasto, imporre confini (razziali, ma non solo) troppo rigidi alla definizione dell’identità personale.
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Queste le frasi complete, in inglese e italiano: They could excuse the ruin, but they couldn’t forgive the tar-brush. Potevano scusare la rovina, ma non perdonare la pennellata di catrame. / “Remember Albert Hammond, how he used to be for ever haunting Seventh Avenue, and Lenox Avenue, and the dancing-places, until some ‘shine’ took a shot at him for casting an eye towards his ‘sheba?’” « Ti ricordi di Albert Hammond? Continuava a farsi vedere in Seventh Avenue, in Lenox Avenue, nelle sale da ballo, finché un ‘muso nero’ gli sparò perché aveva osato posare gli occhi sulla sua ‘regina di Saba’.» / “I mean, did you ever go up by nigger-power?” «Intendevo dire: ci sei mai salita con l’ascensore dei negri?»