Senza toccare è il primo romanzo tradotto in italiano della scrittrice turca Nermin Yıldırım. I fondatori italiani e turchi della casa editrice indipendente ed ecosostenibile Altano sono quattro giovani entusiasti e appassionati che hanno deciso di dedicare le loro pubblicazioni alla letteratura turca; pubblicano libri in formato digitale e, solo su richiesta, a stampa. Senza toccare è stata la loro prima uscita nella primavera del 2021.
Nermin Yıldırım mi era stata proposta come un’alternativa alla maggior parte degli scrittori turchi che si trovano sugli scaffali delle librerie italiane. Credo che, con questa proposta, fossero alla ricerca di qualcosa di meno “turco” nel significato stereotipizzato di questa parola - che si traduce in meno moschee, meno rimandi orientaleggianti (per noi), meno carceri, meno ingiustizie sociali. Per questo, la scelta per la loro prima pubblicazione sarebbe dovuta ricadere su un’opera contemporanea che rappresentasse una Turchia che, a dispetto del ben noto immaginario del ponte tra Occidente e Oriente, fosse per una volta un paese del quale se ne riconoscesse la “sponda occidentale”, spesso trascurata, sorprendendosi di incontrare giovani uomini e donne immersi nella vita moderna di città senza essere vittime di persecuzioni e omicidi e si potesse sorridere delle stranezze dei suoi abitanti, delle loro manie e delle loro difficoltà.
Tuttavia, già nelle prime righe lessi parole come camposanto, buio, angelo della morte, malattia, sarei morta, dolore, lacrime e qualche pagina oltre feci la conoscenza della giovane protagonista Adalet che, come molti nomi propri turchi ha la caratteristica di essere anche una parola con un suo preciso significato, in questo caso “giustizia”. Capii che avevo a che fare con la morte di una giovane donna che, con l’autorevolezza del suo nome, avrebbe potuto invocare una certa qual imparzialità di trattamento considerato quello che la vita le aveva riservato. Con queste premesse i buoni propositi iniziali mi sembrarono vacillare. In seguito, grazie a qualche ricerca in internet e a interrogatori ad alcuni fidati conoscenti turchi scoprii che si trattava di un romanzo di una giovane scrittrice, votata all’introspezione, vincitrice del premio “Libro dell’anno 2017” della rivista letteraria Dünya, dallo stile sarcastico e pungente, ma allo stesso tempo molto sofisticato; così, superate le mie incertezze, cominciai entusiasta questo nuovo lavoro, perché anche se tradurre è un po’ come viaggiare, traghettare parole, immergersi in un altro mondo, alla fine è un duro lavoro, caratterizzato da tempi ristretti e smisurate aspettative e in questo caso anche da una straordinaria attesa che si alimentava pagina dopo pagina.
Senza toccare è un romanzo che parla molto; parlano i personaggi, parlano i loro nomi, parlano gli oggetti, parlano i pensieri. È un fluire continuo di parole, pensieri, sogni che sommergono la giovane protagonista che vive la sua vita in un mondo in disparte nel quale da tempo ormai non ci si sfiora più e nel quale la sua unica preoccupazione è quella di riportare pace nella propria vita. Per questo, si mette in viaggio cercando di rimediare a un errore commesso da bambina, un errore che negli anni si è trasformato in senso di colpa e che l’ha trascinata in quella assurda e antica condizione mentale per cui si crede che essere malati sia una colpa.
È un romanzo di parole perché a una parola ne segue un’altra molto fluidamente, ma non in maniera prevedibile tanto che molte volte è difficile persino immaginarsi quale sarà la successiva. Si mischiano così parole arcaiche, in uso durante il periodo ottomano - e in quanto tali dalle origini persiane, arabe, ma anche armene - e parole della lingua parlata ma elevate a un livello più sofisticato e raffinato che alternandosi contraddistinguono lo stile di Nermin Yıldırım. Senza nulla togliere alla bellezza di queste parole, dal punto di vista della traduzione, sono state svariate le occasioni di conflitto interiore che mi hanno lacerata fra fedeltà e tradimento. Il romanzo è ricco di parole di origine araba che, molto spesso, hanno significati affini anche se non completamente sovrapponibili e che sono molto diffuse nel parlato quotidiano: un esempio è mesele (problema, questione, punto, argomento, faccenda, affare). Altre parole, sempre di origine araba, sono meno comuni e hanno un corrispondente nella lingua turca, come ad esempio mebzul (molto, in turco çok). Dal persiano l’autrice prende a prestito parole come nam (nome, in turco ad) e müjde (buona notizia portatrice di felicità, in turco muştu con riferimento anche all’Annunciazione). E poi c’è l’abilità della scrittrice nell’utilizzo di sostantivi o aggettivi come nomi propri di persona nel tentativo, perfettamente riuscito, di descrivere un tratto del carattere dei suoi personaggi o l’antitesi di essi. C’è la signora Kazulet (enorme, grossolana) che mastica la gomma sonoramente mentre occupa il suo sedile sul treno con il corpo maestoso e ingombrante, c’è il signor Hızır (provvidenza) che sa arrivare al momento giusto e poi c’è il bambino Mahsun (forte e sano) che però è debole e sempre col moccio al naso che con un solo cambio di consonante diventa mahsum (innocente) prestandosi a giochi di parole quasi ossimorici.
Un altro aspetto cruciale del romanzo sono le espressioni idiomatiche. Nella lingua turca parlata l’utilizzo di modi di dire è molto diffuso. Questi sono un patrimonio comune dell’intera popolazione turca, senza stratificazione sociale, dalle radici culturali molto marcate e salde. Il loro uso generoso da parte della scrittrice mi ha posto davanti a un duplice problema. Da una parte, il lavoro a livello di comprensione e in seguito di traduzione e dall’altra la scelta se mantenere o no nel testo italiano l’espressione stessa. E se in alcuni casi la decisione è facile perché esiste il corrispondente italiano, in altri, come l’intero capitolo dedicato al vento di Saragozza, in cui ogni riferimento al tempo atmosferico crea un gioco di parole pressoché inimitabile, tutto diventa più difficile. A ciò si aggiunge talvolta l’aspetto animalesco, per così dire, di alcune di queste espressioni. Utilizzati moltissimo nella lingua turca, gli animali rientrano in espressioni idiomatiche colloquiali, sotto forma di metafore e similitudini. C’è di tutto: cavalli, cammelli, buoi, capre, arieti, scimmie, cavallette, corvi. Il cammello è goffo e impacciato, il bue è il maschio ignorante e maleducato, le capre sono testarde, le corna dell’ariete sono un motivo tradizionale dei tappeti kilim.
Infine, una questione propria della lingua turca e pertanto non solo di questo romanzo è l’assenza di genere grammaticale. In questo caso, è stata l’autrice a guidarmi nella decisione da prendere. Per i casi più ambigui in cui il turco ricorre a sostantivi neutri come kişi o insan (persona, essere umano) oppure possiede un sostantivo solo çocuk per indicare bambino e bambina ho optato, con il benestare dell’autrice, per la soluzione più naturale per un pubblico di lettori italiani. La scelta finale può essere andata contro quelle che sono le ultime tendenze in materia di neutralità di genere in ambito linguistico, ciononostante si è deciso di lasciare il genere maschile, qualora non diversamente indicato nell’originale, proprio per non creare una versione che risuonasse una forzatura per un lettore italiano che ancora utilizza il genere maschile quando si vuole generalizzare o il genere naturale di un sostantivo non è specificato.
Lo scambio di opinioni con l’autrice e la sua disponibilità hanno reso questo lavoro ancora più piacevole, una collaborazione che mi aveva spesso incuriosito. Altano - il vento leggero dal mare di levante - avrà fatto una scelta diversa ma l’intensità della scrittura e delle descrizioni rimane piacevolmente quella della tradizione turca.