Il fatto. Perché un fatto c'è, ed è avvenuto vent'anni prima. Un omicidio terribile, in cui un'intera famiglia, mamma, papà e due bambini ancora piccoli, è stata trucidata nella sua camera d'albergo alla periferia di Atlanta da Smokey Nelson. Un fatto di cronaca, che ha occupato i giornali fino a spegnersi e venire dimenticato. Come anche ci si è scordati di quell'uomo, poco più che un ragazzo, che da allora aspetta nel braccio della morte che arrivi la sua condanna.
L'America nel frattempo ha conosciuto il passare del tempo, l'uragano Katrina, la crisi economica, il suo primo presidente nero. L'oscillazione di speranze e disperazione, in quello che in fondo è il dondolio tipico della vita.
Per tre persone però da allora niente è stato più come prima. L'altalena si è fermata e stanno seduti sul pianale ad aspettare che qualcosa avvenga. Sono voci dell'emarginazione quelle che prendono la parola, in un capitolo dopo l'altro, lasciando a Smokey il compito di mettere un punto alla storia e di concludere con le sue parole le vicende e il libro.
Se è vero allora che un traduttore deve mettere il proprio orecchio al servizio dell'autore, questo romanzo ha richiesto di farlo vibrare più volte e in modo diverso. Si tratta non solo di accorgimenti stilistici molto marcati, segnati dal passaggio dalle cadenze sincopate e dalle brusche accelerate di Sydney, alle comode e pacate narrazioni nell'afa del Sud di Pearl, fino a elegiaci voli verso il cielo nei dialoghi di Ray con Dio. In modo più profondo sono proprio voci diverse, mondi diversi, lingue diverse.
Ci sono autori che sornioni offrono un testo dalla lettura semplice, che scivolano come acqua nell'orecchio e si rivelano difficili proprio nella restituzione di quella semplicità. Come assistere a una danza, dove il volteggiare di un braccio ha l'apparenza di un movimento facile da riprodurre e impossibile da replicare proprio così. Altri autori invece si presentano nella loro difficoltà, ma seguendoli passo passo e abbandonandosi alle loro indicazioni combaciano perfettamente con la scrittura che ne esce nel nostro italiano. Di alcuni invece le difficoltà annunciate rimangono presenti dall'inizio alla fine. Questo è il caso di Catherine Mavrikakis. Spaventata da Sydney Blanchard, ho iniziato dalla voce che mi sembrava meno insidiosa, quella di Pearl Watanabe, che nella lettura sostiene la narrazione, offrendo quasi da sola lo svolgersi della vicenda. Poi mi sono concentrata su quella di Ray Ryan. Per farlo ho ripescato nella mia infanzia, nel mio passato un po' inquietante di integralista cattolica, quando le domeniche andavo alla messa e il pomeriggio al catechismo. Mi sono divertita un mondo a recuperare quel linguaggio del rito che tanto mi aveva affascinato da bambina. Ma rimaneva ancora Sydney, a guardarmi in cagnesco e chiedermi “ce la farai?”. E soprattutto: “come lo farai?”.
Il pensiero di Sydney è come un sacchetto di biglie rovesciato su un piano un poco inclinato, che rotolano giù in una discesa inarrestabile. Sorpassi, sgambetti e accavallamenti. Da seguire in una rincorsa continua. Un monologo politicamente scorretto, al volante della Lincoln Continental del '66 e in compagnia di Betsy, la cagnona bianca che risponde col suo ronfare agli insulti che Sydney rivolge a “tutto il popolo dei mandarini”. Ho deciso di sedermi allora sulla mia Panda gialla, lasciarmi invadere dalla rabbia di un idiota che mi blocca il passaggio e farmi assalire dalla frustrazione di Sydney. E semplicemente, iniziare a tradurre una pagina. “Una parola dopo l'altra”, come dice Stephen King per la scrittura. Una parola dopo l'altra, ho restituito voce a Sydney. E ai fiati di Ray, al pianoforte di Pearl, si è aggiunta la chitarra elettrica e rutilante che mancava.