Per il lettore, o piuttosto per la lettrice, trattandosi di un romanzo fatto apposta per affascinare il pubblico femminile, dedicare qualche ora a La donna dal taccuino rosso è come concedersi una piacevole vacanza dalla dura realtà, senza tuttavia smarrire i punti di riferimento di una quotidianità che, apparentemente, ha tutte le caratteristiche della nostra. E questa è anche l’esperienza prima della traduttrice. Esperienza che del resto sto di nuovo vivendo, sia pure in una chiave diversa, mentre traduco l’ultimo libro di Antoine Laurain, Rapsodie française, che sarà pubblicato sempre da Einaudi.
Nell’universo romanzesco creato da Laurain i giovani broker rinunciano alla loro remunerativa ma odiosa professione per diventare librai, le librerie indipendenti hanno un «buon fatturato», i coniugi divorziati mantengono rapporti civilissimi, i figli liceali sono, sì, irrispettosi e un po’ saccenti, ma anche empatici e collaborativi. Non mancano, nel ruolo di silenziosi numi tutelari, due gatti, il gentile Belphagor e il truce e gigantesco Putin. Ma soprattutto, alla fine, l’amore trionfa. Un pizzico di «favoloso mondo di Amélie» e un pizzico di «Lubitsch touch». Laurain ha il dono di scegliere gli ingredienti giusti e combinarli in un intreccio dove «il gioco dell’amore e del caso» conduce, fra malinconia e umorismo, alla conclusione più felice e consolatoria, di cui Dio sa quanto oggi abbiamo assoluto bisogno, almeno per un momento. Persino la copertina del volume, nell’edizione italiana, con la deliziosa immagine di una ragazza in abito rosso a pallini bianchi, di foggia vagamente anni Cinquanta, contribuisce a creare un’atmosfera di piacevole attesa e di garbato enigma.
Ma per il traduttore la sfida consiste proprio nel rendere la grazia, la leggerezza e l’arguzia della scrittura di Laurain: qualità tutte francesi, maturate nel corso di secoli e qui aggiornate all’epoca delle mail e degli esfolianti biologici per il viso. Raffinatezza intellettuale ma divieto assoluto di pedanteria, magniloquenza, supponenza: la regola aurea dei salotti parigini dal Seicento in poi, ma declinata in chiave minore, e con ironia. Il romanzo è disseminato di nascoste o esplicite allusioni letterarie, niente affatto scontate, la nozione di «nostalgia del possibile» formulata dal nostro Antonio Tabucchi, e un grandissimo scrittore come Patrick Modiano, ingiustamente troppo poco letto in Italia, compare addirittura come personaggio, determinante, della vicenda. La sfida è dunque, più ancora che linguistica e stilistica, culturale: trasmettere, finché è possibile, un’atmosfera così indefettibilmente francese a un pubblico che di quella cultura sa sempre meno (oggi persino lo slogan della Renault è «Passion for life»!). Una sfida che a volte è impossibile vincere. Citerò un solo esempio, scelto di proposito fra quelli più banali: il pot-au-feu, che viene cucinato dal protagonista alla figlia adolescente, dietro sua imperiosa richiesta, ed è oggetto dell’unica conversazione telefonica fra i due genitori, divorziati e ormai lontani anni luce per scelte e stili di vita, che si consultano su quanti chiodi di garofano richieda la ricetta. Il pot-au-feu è un semplice lesso, di carne e verdure, e così l’ho tradotto, dopo molte esitazioni e con la perfetta consapevolezza di cancellare un indizio culturale importante: lasciare il termine in lingua originale, anche se il lettore potrebbe documentarsi con facilità su Internet, avrebbe conferito un’aura un po’ esotica, e forse addirittura una patina di raffinatezza, a qualcosa che rimanda invece alle radici più profonde dell’identità francese, rurale e piccolo borghese, e a un culto della tradizione che Laurain sa coniugare senza sforzo apparente con la più effimera contemporaneità. Nel suo mondo così rassicurante la violenza del conflitto irakeno in cui viene ucciso il marito della misteriosa protagonista si stempera nel paziente lavoro delle sue mani di doratrice, che restaurano con migliaia e migliaia di foglie d’oro la cupola degli Invalides, e la cupola degli Invalides convive armoniosamente con le sneakers Converse. La ricetta di questa armonia sembra facile, come quella del perfetto pot-au-feu, ma è invece frutto di un sapientissimo dosaggio che è il segreto della sua scrittura.