Ricordo l’interrogatorio del bibliotecario della Federiciana di Fano (Marco Ferri, che in seguito l’avrebbe diretta) quando, liceale, gli restituii i Karamazov dopo neanche una settimana dal prestito. “Non l’hai finito?”. L’ho letto tutto, gli ribattevo, l’ho sbranato. Ivan, Dmitrij, Alëša, il diavolo, Smerdjakov, Zosima, la sofferenza di ogni essere umano, lo strazio per un’armonia superiore che non si incarna sulla terra… “Due più due?”. Cinque! Sorrisi.
Ricordo anche un libraio di Fano, Francesco, che un paio di decenni dopo usciva dal suo negozio sotto i portici urlando: “Corri! Subito! C’è Alëša Karamazov!”. Era Carlo Simoni, che nel 1969 lo aveva interpretato nello sceneggiato di Sandro Bolchi. Imbarazzo. Strette di mano. Sorrisi.
E ricordo la telefonata di Enrico Ganni (la sua competenza gentile manca ogni giorno) che mi proponeva di tradurli, I fratelli Karamazov. Il terrore di affrontare l’idolo dell’adolescenza, le sue pagine intrise “della materia dell’anima”, ma soprattutto i “vortici ribollenti, i mulinelli di sabbia, le trombe d’acqua risucchianti” della sua lingua, di cui dopo le parole di Virginia Woolf avevo avuto la prova tangibile leggendoli finalmente in russo. Ci è voluto un po’, ma sono comunque arrivati. I sorrisi.
Perché a questo servono, spesso, le nuove traduzioni.
La sostanza di questo capolavoro assoluto (la meraviglia perturbante, lo strazio sublime, la miccia infangata per i pensieri, la farsa tragica e la tragedia farsesca del ventaglio della vita umana) è ovviamente immutata e folgorante, nel suo indomito scavo nelle profondità più infime dell’animo. Dmitrij e il suo baratro di istinti, Ivan fra dèmoni e demòni, Alëša (Aleksej Fëdorovič, colui che difende il dono di Dio, recita l’etimologia di nome e patronimico) disperato attizzatoio di una speranza flebile, ma ostinata, lo squallore di Fëdor Pavlovič, e ancora Smerdjakov, Grušen’ka, Katja, la Chochlakova, i polacchi, e tutto il serraglio che a cent’anni di distanza ancora giustifica la “polifonia” intuita da Michail Bachtin continuano a scalpitare fra le pagine costringendoci spasmodicamente a fare i conti con le nostre, di cancrene e di slogature dell’animo.
Spasmodicamente, sì. Spasmo, febbre, convulsione, calor bianco sono la temperatura abituale delle pagine di Dostoevskij, e galvanizzato è anche il nervo della sua lingua. Senza scomodare Joyce, che ne faceva la madre della prosa moderna, basterà ricordare una lettrice di russo a Ca’ Foscari che ormai trent’anni fa apriva a caso, alla cieca i volumi di Tolstoj e Dostoevskij e ci invitava a riconoscerli. La differenza era lampante persino per noi studenti del terzo anno: l’azzardo sintattico, la melodia disarmonica del periodare, la disinvoltura nell’uso della lingua della strada (al limite, spesso superato, dell’oralità spiccia), e ancora il burocratese degli uffici, la sintassi teologico-biblica di certi passi, il gergo dei giornali, le ripetizioni (necessarie, irrinunciabili per lo sviluppo ritmico delle sue idee), le lunghe frasi contorte e quelle asciugate fino all’osso, là dove la grammatica pretenderebbe un respiro più disteso, si amalgamavano in una congerie riconoscibilissima che incrinava la norma letteraria del tempo. E lo faceva in modo estremamente consapevole: Io non riesco a scrivere di getto – spiegava eloquentemente Dostoevskij a Pelageja Guseva in una lettera del 1880.
Questa è, appunto, la sfida per i traduttori attuali e futuri di Dostoevskij: ripiegare l’italiano liturgico che si credeva l’unico adatto a onorare i classici e sporcarsi le mani con la pasta sonora e sintattica della sua lingua plastica e veemente, così da far risuonare quanto a volte è stato ignorato per una diversa interpretazione del gesto traduttivo.
Non sarà sempre una lettura facile e mai sarà “ruffiana” o consolatoria. Ma non potrà che stupire chi legge con il suo straripante virtuosismo. Del resto, se “due più due fa quattro è solo un’impertinenza” e “sul piano del bello due più due fa cinque è sicuramente meglio”, aduecento anni dalla nascita del suo autore, questo romanzo incompiuto di mille e più pagine (“storia interminabile che, per comune riconoscimento, pochissimi russi hanno avuto il coraggio di leggere fino in fondo” scriveva il visconte de Vogüé a un decennio dalla pubblicazione) non lascerà mai tiepido chiunque decida di affrontarlo.
Perché, alla fine, aveva ragione Albert Camus, quando una sera di aprile del 1956 scriveva a Maria Casarès:
“Lunedì sera sono andato da solo alle 20.00 a vedere I fratelli Karamazov.
Il cinema, forma e odore, faceva pensare a un orinatoio. Dentro, trenta persone del quartiere, vecchi stanchi, la giornalaia dell’angolo con il suo bello, il venditore di patate fritte, tre mezze puttane, due futuri clochard, e io. Tutti visibilmente sopraffatti da quella storia fumosa, girata in studio, da attori italiani sconosciuti. Avevano lasciato solo l’intreccio poliziesco e soppresso la questione di Dio. Tanto che il vecchio Karamazov era ormai solo un rimbambito vizioso, Ivan un burocrate con lo stomaco malconcio e Alëša un telegrafista idiota. Dmitrij aveva una certa classe e diceva a ogni scena ‘sono un balordo’. Grušen’ka aveva il suo perché, davanti e dietro, e Katerina non aveva proprio un bel niente. Detto questo, mi sono colpevolmente divertito e sono uscito commosso.
A riprova che Dostoevskij può resistere a tutto”. (in Saremo leggeri, A. Camus, M. Casarès. Trad. Y. Melaouah e C. Diez, Bompiani, 2021).
[Questo articolo è apparso sul “Sole24ore” del 14 novembre 2021]