La prima volta che venni a conoscenza dello scrittore turco Ahmet Ümit e vidi un suo romanzo risale a più di dieci anni fa. Il romanzo era Istanbul Hatırası (letterariamente Un ricordo di Istanbul) ma quel titolo, a metà della copertina non mi fu subito chiaro. Tuttavia, a colpirmi fu proprio la copertina; una pagina impregnata di nostalgia: il colore ingiallito delle vecchie fotografie, il Bosforo, il profilo della città antica con le sue moschee e i minareti, un gabbiano e in primo piano l’isolotto con la Torre di Leandro. Lo leggeva, entusiasta, una mia collega, anche lei insegnante nella stessa università dove lavoravo io, a Istanbul. Ogni mattina lo portava con sé e le brillavano gli occhi mentre ci raccontava quanto non riuscisse a staccarsene e del piacere che provava a leggere questo romanzo che le aveva smosso una consapevolezza fino ad allora un po’ assopita, ahimè, quella di essere nata e di vivere in una città gloriosa, come ricorda lo stesso Ümit nell’incipit dello stesso romanzo citando un verso del poeta Yahya Kemal. A lei brillavano gli occhi, io ero più scettica, ma mi incuriosiva e così cominciai a fare ricerche sull'autore, che per una volta non aveva un nome particolarmente impronunciabile.
Ahmet Ümit si scopre scrittore per caso, quando nel 1980, dopo il colpo di stato, inizia il suo impegno politico fra le frange comuniste; oltre alle attività di propaganda e affissione di poster e slogan, scrive anche resoconti sotto forma di racconti per i suoi compagni in carcere. Uno di questi racconti viene in seguito pubblicato su una rivista, arriva così fino a Praga ed è poi tradotto in 40 lingue. Passano gli anni, Ümit lascia la politica, si dedica alla scrittura in versi e fa il suo esordio letterario, con il suo primo romanzo, nel 1992. Da allora ha scritto 27 romanzi e venduto milioni di copie; in Turchia è molto amato e con le sue storie è riuscito ad avvicinare alla lettura una popolazione che, statisticamente, non è certo fra quelle i cui lettori sono i più numerosi. In Turchia è un'icona e a lui va il merito di aver messo, almeno quanto a gusti letterari, quasi tutti d’accordo; cosa da non sottovalutare in un Paese dove talvolta si convive a fatica.
Quando, a distanza di dieci anni, mi fu offerto di tradurre Istanbul Hatırası, mi sembrò una richiesta incredibile, per varie ragioni. Era il libro che mi ricordava i miei anni a Istanbul, era un autore da milioni di ammiratori, era già stato tradotto in più di dieci lingue.
Ci sono volute giornate intere per tradurre le quasi 600 pagine che raccontano con dialoghi scorrevoli, descrizioni profonde e una lingua chiara e precisa le indagini del Commissario Nevzat impegnato con la sua squadra, composta dai suoi due aiutanti, Ali e Zeynep, a risolvere il caso dei sette omicidi commessi in sette diversi luoghi della città, come sette sono i colli su cui si estende Istanbul. Delitti efferati che culminano con l’abbandono dei corpi posizionati in maniera enigmatica, affinché il loro ritrovamento conduca, come un filo, le indagini a una soluzione. Perché Istanbul ricordi, non è semplicemente un poliziesco, anche perché se così fosse, non sarebbe un romanzo così completo e riuscito come in effetti è; mancano i ritmi serrati dei polizieschi a cui il lettore esperto del genere è più abituato, manca anche una narrazione fatta di dettagli e ragionamenti minuziosi, comune ai romanzi più classici del genere. È un romanzo che ha un assassino e delle vittime, degli indizi e dei sospettati, una squadra di polizia investigativa e una scientifica; si fanno interrogatori ed esami di laboratorio, ci sono depistaggi e divagazioni, però è anche una passeggiata fra le strade di Istanbul, un viaggio nel passato e nella storia di quella gloriosa città dalla sua nascita a oggi. Come dichiara Ümit in numerose interviste, gli scrittori che più lo hanno ispirato nel suo genere di scrittura sono stati, sorprendentemente, Sofocle e Dostoevskij, da lui riconosciuti come gli autori “polizieschi”, indagatori dell’animo umano, per eccellenza. In Perché Istanbul ricordi ci sono infatti aneddoti sulla vita, storie di amicizia, i conflitti interni dell'individuo, l'amore, la disperazione, la religione, la grettezza morale.
Il commissario Nevzat ha certamente un ruolo centrale nelle indagini, perché si intende di storia e mitologia, ma è anche un uomo profondamente scosso nell’animo dalla ferocia umana; le sue digressioni e i lunghi monologhi interiori lo allontanano dall’immagine stereotipata del poliziotto turco, duro e violento. La sua, come tutte le caratterizzazioni, sia psicologiche sia linguistiche, dei molti personaggi è complessa; se è vero come è vero che la lingua che usiamo dice anche molto di quello che siamo, Ümit è impeccabile nello scegliere il tono e le parole giuste per un Nevzat, in veste ora di commissario ora di amante e amico sentimentale, per una giovane assistente intraprendente, Zeynep e un aiuto commissario impetuoso e aggressivo, Ali e io non avrei potuto non essergli fedele. Al contrario, la scelta della traduzione di un accento o un dialetto non è una pratica altrettanto devota. Ad esempio, il dialogo fra due amici caratterizzato da un accento marcato del Mar Nero insieme a una connotazione di scarso acume intellettuale, ha sofferto lasciando il posto a una traduzione-quasi-spiegazione con l’aggiunta dell’aggettivo “cocciuto”. Sono state oggetto di pensieri approfonditi, consultazioni e ripensamenti anche i molti epiteti come ulan, gerzek, herif (tizio, ragazzo, tipo) o pagine con riferimenti ad animali ӧküz (bue), domuz (maiale), deve (cammello), aslan (leone) con connotazioni negative sia caratteriali che intellettuali, ma soprattutto gli innumerevoli modi di dire contenenti la parola Allah, che non hanno necessariamente un riferimento religioso e, anche qualora l’avessero, rimangono per lo più espressioni culturali. Altri riferimenti, in particolare quelli a canzoni che hanno fatto e fanno ancora oggi la storia culturale della Turchia da svariate generazioni sono, purtroppo a volte, scomparsi. Alcuni sono però riusciti a lasciare un segno meglio di altri; penso al titolo di un capitolo in cui il commissario Nevzat si appresta a ricevere a cena la sua amata Evgenia; il verso della canzone del cantante Zeki Muren “Brucio, sono un fuoco, non ho cenere né fumo” diventa “Fuoco onnipotente”. Il lettore turco, mi dico, avrà certo sorriso di più. Tuttavia, non si è trattato solo di tradurre un romanzo e le sue parole; in questa occasione è stato per me, come lo è stato per l'autore, un lavoro di ricerca e di studio di storia e mitologia che mi ha regalato una lettura unica e che ha visto alla fine la sua uscita in una copertina di colore blu con un toro con un manto rosso che a Ümit è molto piaciuta proprio per la sua originalità.