Io e i miei gatti

Argomento: Romanzo
Editore: Guanda
Autore: Bohumil Hrabal
Pubblicazione: 12 novembre 2021

Dei delitti e delle pene:
su Hrabal, i gatti e altri tradimenti


«Si finirà per produrre semplici studi, senza avvenimenti imprevisti e relative soluzioni, l'analisi di un anno di vita, la storia di una passione, la biografia di un personaggio, le annotazioni prese sulla vita…» (E. Zola)

A leggere soltanto i nove capitoli del racconto Autičko (escludendo quindi per un attimo Prologo ed Epilogo), questa vicenda di teneri cuccioli e gatte particolarmente prolifiche ambientata nella casetta che lo scrittore Bohumil Hrabal aveva comprato nel 1965 a Kersko (non lontano da Praga), a leggere quella cronaca quasi quotidiana dei rapporti tra il narratore e i suoi amati felini, verrebbe quasi da pensare a un diario, a un taccuino nel quale il nostro autore annotava gli accadimenti di quei mesi e le proprie reazioni. Quasi fosse un frammento staccatosi per partenogenesi dall'imponente autobiografia che Hrabal aveva terminato di scrivere nell'agosto del 1982, quindi poco più di un anno prima di Autičko. Ma è invece proprio la cornice narrativa a trasformare la nostra lettura di questo racconto bello e inquietante. Vediamo come.

1. Prima però stabiliamo meglio i tempi della scrittura. Dopo aver buttato giù in un sol blocco quell'autobiografia narrata per bocca della moglie, che termina con gli avvenimenti del '73, Hrabal decide dopo due anni di dividere il testo in tre parti autonome, a testimonianza di una particolare attenzione, in quegli anni, alle proprie vicende personali. Autičko si situa giusto a metà tra le due stesure: l'incidente di cui si parla, che accadde realmente, avviene il 26 ottobre del 1983 (al volante c'era la moglie) e il racconto, iniziato appena una settimana dopo aver lasciato l’ospedale, è terminato già a novembre e uscirà – con qualche modifica e alcuni tagli – nel volume Život bez smokingu (Una vita senza smoking, 1986). Quindi un altro frammento biografico? No. L'intervista posta a guisa di Prologo, annunciando come une ouverture i temi che saranno sviluppati, e poi la parabola del cigno intrappolato nel ghiaccio posta ad Epilogo, ne cambiano totalmente la prospettiva. Mostrando un esperimento narrativo unico nella produzione hrabaliana.

Per restare per ora all'intervista-prologo (in realtà mai uscita a stampa, per cui tenderemmo a considerare anch'essa frutto della finzione), davvero qui sembrano raccogliersi i motivi che attraverseranno il racconto: l'amore per i gatti, la violenza sugli animali mandati al macello, la letteratura che spaventa, la responsabilità dello scrittore davanti ai suoi lettori e a se stesso, la mistica come «stato naturale dell'animo», «qualcosa di più dell'immaginazione»… Soprattutto però ci colpisce la prima risposta, quella sull'«autenticità» di ciò che Hrabal scrive, il suo partire da quel «qualcosa di autentico» («un avvenimento, un'esperienza») ma fermentato dal «lievito di una fantasia che vada a precisarne meglio i contorni»: «l'unica mia autenticità – leggiamo – consiste in un'incessante inquietudine per ciò che ho scritto, per ciò che scrivo». Teniamolo a mente. […]

In realtà Autičko, testo anomalo rispetto al Hrabal che conosciamo, è una sorta di poemetto in prosa dove l'avvitamento del protagonista nella spirale dell'incubo in cui precipita per via dei suoi amati gatti è reso dal ritorno di frasi uguali, come in un canone a più voci, e la narrazione procede per echi interni di parole, mentre sequenze tra loro lontane si rimandano l'un l'altra, come nel gioco di specchi di una mente in delirio: così le mucche intraviste dal tram rimandano alle mucche chagalliane del giovane Polách, i fantasmi dei gatti che visitano il narratore rimandano a quelli degli uccelli canterini del vecchio Polách, e gli eleganti cigni sulla Vltava sfumano nel cigno prigioniero nel ghiaccio del fiume… E in questo poemetto un po' noir, protagonista assoluta sembrerebbe essere la voce narrante. Infatti il «noi», spesso utilizzato, indica quasi esclusivamente il narratore e i suoi gatti, raramente anche la moglie, relegata a rare azioni di sfondo, mentre la sua funzione nel racconto pare quella del coro nelle tragedie greche, annuncio di Sventure, intenta a ripetere sempre la stessa tragica predizione, la stessa minaccia che incombe fin dalla prima riga, come il Nevermore del Corvo di Poe, quasi fosse un doppio anche lei della veggente Mařenka. […]

3. Il narratore, la moglie e una combriccola di gatti, gatte e gattini… All'inizio Autičko sembra davvero voler raccontare un idillio che, con l'irreversibilità di un meccanismo a orologeria, porta il narratore a compiere gesti di violenza nei confronti degli esseri che maggiormente ama, col conseguente corollario di rimorsi e sensi di colpa. Al di là, però, di quanto affermato dalla voce narrante (in Hrabal sempre poco attendibile, sia nei testi di finzione quanto nelle dichiarazioni pubbliche), e al di là dei frammenti autenticamente biografici che puntellano il testo (le due automobili, l'incidente, l'amico grafico...), qui non stiamo certo sbirciando un brandello di vita privata, ma leggiamo invece un evidente testo di finzione «rigorosamente progettato», magari soltanto quand'era già in corso d'opera, un testo «in continua fluttuazione tra realtà e irrealtà», come affermava lo scrittore nell'intervista-prologo. Insomma: non un «riflesso» di quella biografia, ma al massimo la sua rifrazione.

Autičko ha infatti tutto l'aspetto di un bizzarro e allucinato «racconto nero» con venature horror, nella tradizione novecentesca di un Meyrink o di un H.H. Ewers. Non crediamo che fosse questo l'intento iniziale, ma erano state le regole di questo preciso genere narrativo a prendere il sopravvento sul progettato reportage. A pressare l'autore avevano certo contribuito gli elementi che si erano stratificati sulla pagina in un crescendo che genera – per semplice ripetizione - un'atmosfera fatta di inquietudine, di sovreccitazione nervosa, quasi di delirio paranoico. E se, nella già citata lunga intervista, lo scrittore aveva definito Autičko una «ballata», era alle ballate romantiche che stava pensando, quelle dove i fidanzati morti tornano tra i vivi a rapire le fedeli promesse spose che ancora li attendono…

Per questo tipo di racconto, la casetta di Kersko circondata dal bosco sembra il microcosmo ideale. Sufficientemente isolata, col lugubre cimitero dei gatti creato dal narratore stesso lì a pochi passi, la dimora felice può con pochi tratti trasformarsi nella «casa degli orrori e dell'annichilimento», e poi – a partire dalle visite notturne dei gatti scomparsi – nella più classica delle «case infestate» della letteratura nera.

Non troveremo certo qui in Hrabal i congegni ammuffiti del gotico: il suo orrore – come avviene già con la svolta di Edgar A. Poe - è interiorizzato, ma ugualmente il racconto è cadenzato dal ritorno di gatti neri, minacciosi e vendicativi, come usciti dai racconti di E.T.A. Hoffmann o di Bram Stoker («La squaw»), e da una rete di immagini: l'accetta, la vanga, le reiterate fosse, il sacco di juta (viene da pensare al sacco delle patate in Frenzy di Hitchcock), le macchie di sangue rappreso, le tracce da cancellare, gli esperimenti con le «macchinette calcolatrici», la veggente… e persino le bianche assicelle della staccionata, come deformate dal metodo paranoico-critico di Salvador Dalì si trasformano in un «plotone di scheletri» quasi presi dalle illustrazioni di qualche vecchio romanzo nero o dalle sorprendenti incisioni dei trattati settecenteschi di anatomia che R. Caillois annovera tra le apparizioni privilegiate dell'universo fantastico.

Rielaborati alla luce delle letture sedimentate nella mente del narratore «alla mercé di forze ostili», gli elementi di quell'annunciato reportage tradiscono in Hrabal la loro sostanza letteraria. Così l'orologio avvolto nella sciarpa, che – per dormire tranquillo – il protagonista nasconde «in cucina, […] dietro alle pentole», ma ugualmente col suo ticchettio gli impedisce il sonno, associandosi in lui al ticchettio della «macchinetta calcolatrice» nel cervello dei gatti-cavia, quell'orologio non può non ricordare il «suono fioco, opaco, e rapido, quasi d'un orologio avvolto nell'ovatta» che tortura il futuro assassino nel Rumore del cuore di E. A. Poe. Allo stesso modo, anche il crudele e ripetuto rituale col sacco delle Poste non poteva non riattivare nello scrittore il ricordo di una scena, non meno raccapricciante, in un testo che l'autore conosceva bene e dal quale era stato influenzato in gioventù: I canti di Maldoror di Lautréamont, lì dove il lucido narratore racconta di come Maldoror aveva infilato «in un sacco di tela» il corpo dell'adolescente Marvyn, sbattendolo «come un fagotto di biancheria, [...] più volte contro il parapetto del ponte» di Carrousel. Ma soprattutto, poi, la sequenza della morte della gatta Švarcava in preda alle convulsioni, lì distesa col «suo terribile occhio minaccioso» che fissa con sguardo accusatorio il protagonista, come nel finale del Gatto nero di Poe, quando il felino - con «la rossa bocca spalancata e l'unico occhio in fiamme» - balza fuori da dietro al muro che occultava il cadavere. Quella «bestia orribile» che – commenta in Poe il narratore - «mi consegnava al boia». […]