La prima cosa da fare, quando avevo cominciato a tradurre La fabbrica dell'Assoluto di Karel Čapek, era stato stabilire la giusta “tonalità” all'interno della quale si sarebbe poi mossa la traduzione, vale a dire – nel nostro caso – una certa leggerezza del tratto, ma non la leggerezza “seria” di Milan Kundera, che confinava coi cupi accordi di Beethoven, bensì la leggerezza del gioco, quella – per rimanere in ambito musicale – dello scherzo e del capriccio. E poi un tessuto lessicale medio, quotidiano, senza però mai scivolare nelle acrobazie del parlato, come avviene ad esempio in Bohumil Hrabal. Un lessico, quindi, che (tranne specifiche eccezioni) rimandava al lessico colloquiale di quegli Anni Venti, quando il romanzo era stato scritto, senza però per questo rinunciare alla propria eleganza e alla propria “corposità”, anche sonora. Il tutto inserito poi in una struttura di frase piana, ma sufficientemente elastica da permettere al traduttore tutte le “divagazioni stilistiche” che il testo si permetteva con grande libertà.
Bisognava poi riuscire a mantenere lo stesso tono distaccato dell’autore, per cui la frase, perfetta nel suo rendere una data situazione, doveva però sempre ugualmente adombrare al suo interno la lievità dell’autoironia, la certezza che in fondo è tutta una presa in giro: i discorsi sulle religioni organizzate e sull’Assoluto, sul giornalismo, sulla scienza accademica, sulla Guerra Più Grande… Era questo soprattutto che mi aveva spinto a ritradurre il testo di Čapek, maldestramente reso in italiano nel 1984: il divertimento dell’autore nel barcamenarsi con l’Assoluto gassoso disceso in terra, e coi guai che riesce a crearvi… e la sua gioia quasi fanciullesca nello spedire ai quattro punti cardinali i suoi eserciti-giocattolo, baraonda bellica molto più simile – in realtà – agli inseguimenti dei poliziotti della Keystone nei film di Mack Sennett…
C’era poi da far comprendere subito al lettore (a quello italiano, così come aveva provveduto a fare l’autore col suo pubblico originario) che, al di là della dirompente valanga di avvenimenti che piovono a raffica sulla pagina (invenzioni misteriose, miracoli, estasi mistiche, la Borsa che impazzisce, scontri fisici, guerre inarrestabili…), la sua attenzione doveva essere concentrata soprattutto sul linguaggio, perché è proprio lì che, in gran parte, si sarebbe svolto il gioco narrativo: il linguaggio non sarà semplice mediatore con la realtà, ma diverrà protagonista. E questo fin dal primo paragrafo del romanzo, con la descrizione dell’industriale Bondy intento a leggere il giornale:
"aveva saltato in maniera alquanto irrispettosa le notizie dai campi di battaglia, aveva schivato la crisi di governo e poi a vele spiegate (avendo Lidové Noviny già da tempo quintuplicato il proprio formato, simili vele sarebbero bastate anche per una traversata transoceanica) era salpato verso la rubrica di Economia interna. Qui aveva incrociato per un certo lasso di tempo, dopo di che aveva ammainato le vele e si era lasciato cullare dalle fantasticherie".
Le sette immagini attinte dal lessico della navigazione servono subito a stabilire che, nel romanzo di Čapek, le connotazioni metaforiche e i bisticci con le parole non saranno mai preterintenzionali. Il patto dell’autore col suo lettore (rinnovato qui dal traduttore con il proprio lettore) stabilisce con chiarezza le regole della lettura: ogni intervento a livello linguistico non dovrà mai essere inteso come casuale.
Certo, verrebbe quasi da dire, il linguaggio è la sostanza della letteratura. Sì, ma ci sono autori (e Milan Kundera è tra questi) per i quali la lingua è solo uno strumento per raccontare vicende, ed altri che fanno invece in modo che l’attenzione del lettore si focalizzi soprattutto sul linguaggio. Io ho sempre avuto una predilezione per questi ultimi, da Bohumil Hrabal a Vladislav Vančura, del quale avevo tradotto un paio di anni fa, per Einaudi, La fine dei vecchi tempi, un romanzo del ’34, autentica apoteosi della voce narrante e della sua creatività linguistica.
Ma torniamo alla Fabbrica dell’Assoluto, romanzo fantautopistico scritto nel 1921-22 ma le cui vicende si svolgono tra il capodanno del 1943 e l’ottobre di dieci anni dopo. Uno dei problemi che il romanzo mi poneva era il rischio che un lettore distratto potesse davvero considerarlo una storia di venti-trent’anni dopo, di quel decennio di cui si narrano le vicende, e l’unica maniera per tentare di eludere tale rischio era mantenere un linguaggio (e una costruzione della frase) sempre strettamente ancorati agli usi codificati negli Anni Venti (o anche lievemente più a ritroso), ma soprattutto di usare un lessico che fosse già tutto registrato nei dizionari e nei testi letterari italiani non successivi al 1923-25. In tal modo la traduzione diventa per me qualcosa come i giochi dell’Oulipo: un lavorare nei limiti di una precisa costrizione, in realtà doppia: quella, ovviamente, dovuta al testo di partenza, e quella dei limiti cronologici imposti al lessico di arrivo.
E poi, dato l’argomento del romanzo (l’Assoluto che appare sulla terra sotto forma di gas «libero»), bisognava non perdere mai d’occhio Čapek nel suo giocare col lessico della fisica dei gas, parlando di «legami» chimici tra gli atomi, e di «liberazione» delle molecole da tali legami, sempre però godendo dei possibili doppi sensi, per cui quell’«Assoluto liberato» che invade il mondo non può non rimandare al Prometeo liberato, o magari anche al Prometeo male incatenato di Gide, dove compare, non Dio, ma Zeus che passeggia sui boulevards di Parigi...
E, infine, c’era da ricostruire una piccola serie di minute allusioni, certo dirette solo a una parte minima dei lettori interessati a individuare una genealogia: ovviamente il rimando fondamentale alla Ricerca dell’Assoluto di Balzac (già implicito, in realtà, nella traduzione quasi meccanica del titolo di Čapek) e alla Fin du monde di Camille Flammarion, romanzo che mostrava nella seconda parte un’analoga maniera di trattare “telegraficamente” il diffondersi della guerra sull’intero globo terracqueo, con in più anche un rimando concreto in entrambi i romanzi alle seicentesche «repressioni dei dragoni» (le «dragonnades»), usate in funzione antiprotestante, e che Čapek indirizza invece contro i cattolici nella sua Europa conquistata dai cinesi. Ma soprattutto mi sarebbe piaciuto che il lettore fosse riuscito a percepire, dietro l’attività incontrollabile dell’Assoluto all’interno delle fabbriche, la scena delle macchine che lavorano da sole, e da sole afferrano e sminuzzano i materiali sotto gli occhi di operai ridotti a semplici spettatori, scena che ritrovavo nella prima “utopia socialistaˮ d’inizio Novecento, ambientata su Marte: il romanzo La stella rossa di Aleksandr Bogdanov, uscita in ceco nel 1912 e poi di nuovo proprio nel 1921, e che Čapek probabilmente aveva letto.
Ma arriviamo al fulcro della scrittura di Čapek nella Fabbrica dell’Assoluto: il suo continuo e ironico mimare alcuni linguaggi precisi: quello delle contrattazioni di Borsa, quello del mondo della Chiesa cattolica e dei predicatori populisti, il giornalismo, le antiche cronache, i dispacci telefonici, le missive dei lettori ai giornali (con ottocentesche sfumature risorgimentali), il lessico della diplomazia e dei documenti ufficiali, eleganti gusci retorici senza un contenuto… discorsi tutti da rendere in traduzione coi loro ritmi differenti, e col loro lessico di riferimento, cosa che peraltro contribuiva a creare sulla pagina – anche a livello linguistico – quella stessa irrefrenabile vivacità che si dispiegava a livello della trama. Ma l’ironia čapkiana scorreva spesso sulla pagina senza grossi segnali per il lettore, come un lieve e continuo controcanto, per cui l’avido Bondy meditando tra sé si definiva – in tutta serietà - «patriota», difensore della «madre patria» e del «patrimonio», e quando non riusciva a evitare di presenziare all’inaugurazione del primo Carburatore a Praga, recitava affranto, come un Cristo in croce: «Dio, se puoi, allontana da me… questo calice…» e poi: «Dio, Dio, perché mi hai abbandonato!» Ma lui è ebreo.
Perché le formule linguistiche preconfezionate venivano da Čapek regolarmente applicate al soggetto sbagliato, erano sempre un po’ “fuori luogo”. Così l’inventore Marek descrive l’Assoluto con un lessico da Centrale di Polizia: «Aspetto: infinito, invisibile, informe. Domicilio: dovunque nei pressi dei motori atomici. Professione: comunismo mistico. Reati per cui è ricercato: appropriazione indebita di proprietà privata, esercizio illegale di attività medica, violazione della legge sulle pubbliche adunanze…», mentre l’imprenditore Bondy si rapporta con l’Assoluto come fosse un qualsiasi partner commerciale, offrendo un contratto in cui: «Ci impegnamo a produrLa senza dare nell’occhio, senza alcuna interruzione, nel quantitativo che sarà qui stabilito; in cambio Lei si impegna a rinunciare a ogni qualsivoglia manifestazione del divino nel raggio di tot e tot metri dal luogo di produzione…» Ma neanche il modo di esprimersi del vescovo Linda è quello di un pastore di anime quando esige da Bondy che: «al suddetto numero civico la produzione di Assoluto venga limitata allo stretto indispensabile; e che lì venga prodotto solo un Assoluto particolarmente debole, poco virulento, alquanto rarefatto, le cui manifestazioni saranno meno impetuose e solo sporadiche, un po’ come a Lourdes. Diversamente non possiamo assumerci alcuna responsabilità.»
Ma ancora di più il testo di Čapek si sbizzarriva a parodiare alcuni precisi generi narrativi: il «trattato scientifico», nelle pagine dedicate al giovane studioso cinquantacinquenne Blahouš che ricostruisce a scopi accademici le vicende dell’Assoluto, il linguaggio delle (autentiche) «profezie» d’inizio Novecento, o lo schema di un improbabile «romanzo su un giovane povero», quando all’inizio della Fabbrica dell’Assoluto Bondy cerca d’immaginarsi, dall’alto della sua ricchezza, il lacrimevole destino dell’ex compagno di studi Marek: «Riuscì a figurarsi una testa spettinata all’inverosimile e coperta da un’enorme barba; le pareti tutt’intorno sono cupe e di cartone, come in un film. Di mobilio neanche l’ombra; in un angolo un materasso, sul tavolo un misero modellino fatto di rocchetti, chiodini e fiammiferi sbruciacchiati, una sudicia finestrella si affaccia sul cortiletto interno.» Per culminare nelle cinque pagine che descrivono, con toni eroici, l’avvincente lotta dell’intrepido postino con le forze scatenate della Natura in forma di nevicata, quasi fossimo scivolati di colpo in un romanzo d’avventure, una conquista del Polo in minore.
Variazioni sulla scrittura, raffinata successione di esercizi di stile, che un paio di anni più tardi, nel romanzo La Cracatite a cui sto finendo di lavorare in questi giorni per la Voland, avrebbe portato Čapek a giocare questa volta col lessico (talvolta un po’ inventato) della chimica e della fisica atomica, e soprattutto con gli schemi linguistici e narrativi del romanzo di spionaggio industriale e del romanzo rosa con venature (quasi) erotiche.