Mangiarsi l’un l’altro per gli ideali
di: Emiliano Sabadello
La fabbrica dell’Assoluto di Karel Čapek è un giovincello di quasi cento anni. Riproposto coraggiosamente da Voland, con una nuova e accurata traduzione di Giuseppe Dierna, La fabbrica dell’Assoluto è un’opera che dialoga alla grande con il nostro tempo, conformemente sia alla sua propria vocazione, sia a uno dei suoi significati ultimi. Significati. Perché il libro è quasi un unicum e dichiara la sua filiazione fin dal sottotitolo: Romanzo-feuilleton. Eppure, leggendo, non si tarda a scoprire che, dietro alla lettura abbastanza impegnativa, si nasconde un intero mondo, stratificato, che ripaga il lettore fino all’ultima pagina.
Presentato appunto come romanzo-feuilleton dall’autore stesso, cioè come un’opera che da una parte si rivolge a un pubblico esteso e poco colto, mentre dall’altra sembra auto-dissacrarsi nella forma della sua propria parodia, assumendo insomma sia il significato tecnico-scientifico sia quello comune della parola feuilleton, La fabbrica dell’Assoluto può essere letto come un romanzo d’appendice (fu pubblicato a puntate settimanali dal settembre 1921 sul quotidiano Lidové Noviny, sul quale Čapek scriveva regolarmente), ma anche come un romanzo di fantascienza e perfino come un romanzo satirico.
Queste possibilità di lettura sovrapposte, se non compenetrate, sono date dalla particolare e multiforme attenzione che Čapek aveva per la realtà e la scrittura. Sicuramente influenzato da Wells, la sua critica al mondo che vedeva dipanarsi davanti ai propri occhi è però del tutto originale, sfociando in opere quali R.U.R., nel cui titolo appare per la prima volta la parola robot (i robot di Čapek sono una trasposizione artificiale del mostro di Frankenstein), Racconti da una tasca e Racconti dall’altra tasca, L’anno del giardiniere. Quest’ultimo, è stato già recensito qui su La Nota del Traduttore e pertanto vi si rimanda per ulteriori informazioni sull’autore e la sua opera.
Appare interessante invece, qui, quanto di Čapek scriveva lo slavista Wolfango Giusti nell’Enciclopedia italiana Treccani già nel 1930: “La sua produzione letteraria presenta due tipi assai diversi: in talune opere, come Via Crucis e Racconti tormentosi, prevale una nota intima e psicologica, che è stata confrontata a Dostoevskij; l’influsso dei grandi scrittori russi del secolo scorso è innegabile in queste opere. Invece in certi suoi romanzi (Krakatit) e drammi utopistici (R.U.R.) il Č. vuole renderci il ritmo dinamico della vita presente e futura. L’avanguardismo di queste opere è tuttavia più apparente che reale, perché traspare continuamente una nota individualista e certe volte quasi idillica che si contrappone non a caso alla vita moderna e alla civiltà meccanica”. Pur non essendo presente nella voce redatta da Giusti (forse perché all’epoca non ancora tradotto, o perché in qualche modo inviso al regime mussoliniano), La fabbrica dell’Assoluto è un romanzo che si adatta alla perfezione a quanto scritto dallo slavista e anzi forse ne rappresenta una formidabile sintesi. Perché l’evidente carica utopica del libro passa proprio attraverso lo scontro fra le note intime e psicologiche di alcuni personaggi e il ritmo indiavolato della nuova vita moderna, il tutto proiettato in un futuro molto ben caratterizzato che arriva, paradossalmente, ma in realtà dialetticamente, ad assumere tinte tendenti alla distopia.
Siamo, insomma, di fronte a un’opera di tutto rispetto, che finalmente è accessibile al pubblico italiano, nella forma che merita, corredata dai disegni di Josef, fratello dell’autore, che sono dei veri e propri commenti visivi al testo. Come molto spesso accade alle grandi opere, l’interesse del romanzo non risiede tanto nella trama, quanto nelle situazioni che vi sono intrecciate. L’occasione, lo spunto, della storia è semplice e tradisce già quella duplicità, quello scontro, fra intimità e realtà che lo attraverserà per intero: Marek, un ingegnere tutto ripiegato su sé stesso, ha messo un annuncio su Lidové Noviny, per cedere il brevetto di una “invenzione molto lucrativa, adatta a qualsiasi fabbrica”. Un suo vecchio compagno al politecnico, G.H. Bondy, presidente degli stabilimenti Meas, fiuta subito l’affare e va a trovare l’ingegnere. L’invenzione che Marek venderà a Bondy “costituisce nel mondo della tecnica una rivoluzione ben superiore all’invenzione della macchina a vapore da parte di Watt. […] si tratta allora – in termini teorici – dello sfruttamento totale dell’energia atomica”. È un Carburatore, che ha la particolarità di sostituire alla materia l’energia, che porterà Bondy alla realizzazione di un affare planetario e alla generazione di Dio. E qui scatta quel carosello tipico dei feuilleton (da Čapek veicolato però da un fondamentale impianto satirico), un alternarsi di personaggi e vicende tutto teso a mostrare la carica spersonalizzante del capitalismo e come il mondo possa svuotarsi proprio in virtù di una produzione resa universale dall’Assoluto, resa sempre più distante da quelli che sono i valori d’uso delle merci.
L’Assoluto, che altro non è che il gas di risulta dalla distruzione della materia, condurrà il mondo verso “la cosiddetta Guerra Più Grande”, che verrà combattuta dal 12 febbraio 1944 all’autunno del 1953 e che porterà alla radicalizzazione di qualcosa di fondamentale. Seguendo le parole di Bondy: “In Europa, da che mondo è mondo le persone si sono sempre mangiate l’un l’altra per via degli ideali”. Con, in ultima istanza, a far risaltare la lungimiranza dello scrittore, che già intravedeva un’Europa inquieta all’indomani della Prima Guerra Mondiale e che la vedeva già pronta a essere squassata da un radicale scontro all’ultimo sangue fra ideali o, meglio, fra civiltà, come puntualmente avverrà dal fascismo in poi.
La fabbrica dell’assoluto può essere in definitiva considerata, per questo e molto altro ancora, un’opera realmente filosofica, che riflette la formazione del suo autore e che dà uno smacco ai filosofi di professione, ingessati nelle loro accademie.
Emiliano Sabadello