Dei delitti e delle pene:
su Hrabal, i gatti e altri tradimenti
di: Giuseppe Dierna
Il narratore, la moglie e una combriccola di gatti, gatte e gattini… All'inizio Autičko sembra davvero voler raccontare un idillio che, con l'irreversibilità di un meccanismo a orologeria, porta il narratore a compiere gesti di violenza nei confronti degli esseri che maggiormente ama, col conseguente corollario di rimorsi e sensi di colpa. Al di là, però, di quanto affermato dalla voce narrante (in Hrabal sempre poco attendibile, sia nei testi di finzione quanto nelle dichiarazioni pubbliche), e al di là dei frammenti autenticamente biografici che puntellano il testo (le due automobili, l'incidente, l'amico grafico...), qui non stiamo certo sbirciando un brandello di vita privata, ma leggiamo invece un evidente testo di finzione «rigorosamente progettato», magari soltanto quand'era già in corso d'opera, un testo «in continua fluttuazione tra realtà e irrealtà», come affermava lo scrittore nell'intervista-prologo. Insomma: non un «riflesso» di quella biografia, ma al massimo la sua rifrazione.
Autičko ha infatti tutto l'aspetto di un bizzarro e allucinato «racconto nero» con venature horror, nella tradizione novecentesca di un Meyrink o di un H.H. Ewers. Non crediamo che fosse questo l'intento iniziale, ma erano state le regole di questo preciso genere narrativo a prendere il sopravvento sul progettato reportage. A pressare l'autore avevano certo contribuito gli elementi che si erano stratificati sulla pagina in un crescendo che genera – per semplice ripetizione - un'atmosfera fatta di inquietudine, di sovreccitazione nervosa, quasi di delirio paranoico. E se, nella già citata lunga intervista, lo scrittore aveva definito Autičko una «ballata», era alle ballate romantiche che stava pensando, quelle dove i fidanzati morti tornano tra i vivi a rapire le fedeli promesse spose che ancora li attendono…
Per questo tipo di racconto, la casetta di Kersko circondata dal bosco sembra il microcosmo ideale. Sufficientemente isolata, col lugubre cimitero dei gatti creato dal narratore stesso lì a pochi passi, la dimora felice può con pochi tratti trasformarsi nella «casa degli orrori e dell'annichilimento», e poi – a partire dalle visite notturne dei gatti scomparsi – nella più classica delle «case infestate» della letteratura nera.
[…]
Rielaborati alla luce delle letture sedimentate nella mente del narratore «alla mercé di forze ostili», gli elementi di quell'annunciato reportage tradiscono in Hrabal la loro sostanza letteraria. Così l'orologio avvolto nella sciarpa, che – per dormire tranquillo – il protagonista nasconde «in cucina, […] dietro alle pentole», ma ugualmente col suo ticchettio gli impedisce il sonno, associandosi in lui al ticchettio della «macchinetta calcolatrice» nel cervello dei gatti-cavia, quell'orologio non può non ricordare il «suono fioco, opaco, e rapido, quasi d'un orologio avvolto nell'ovatta» che tortura il futuro assassino nel Rumore del cuore di E. A. Poe. Allo stesso modo, anche il crudele e ripetuto rituale col sacco delle Poste non poteva non riattivare nello scrittore il ricordo di una scena, non meno raccapricciante, in un testo che l'autore conosceva bene e dal quale era stato influenzato in gioventù: I canti di Maldoror di Lautréamont, lì dove il lucido narratore racconta di come Maldoror aveva infilato «in un sacco di tela» il corpo dell'adolescente Marvyn, sbattendolo «come un fagotto di biancheria, [...] più volte contro il parapetto del ponte» di Carrousel. Ma soprattutto, poi, la sequenza della morte della gatta Švarcava in preda alle convulsioni, lì distesa col «suo terribile occhio minaccioso» che fissa con sguardo accusatorio il protagonista, come nel finale del Gatto nero di Poe, quando il felino - con «la rossa bocca spalancata e l'unico occhio in fiamme» - balza fuori da dietro al muro che occultava il cadavere. Quella «bestia orribile» che – commenta in Poe il narratore - «mi consegnava al boia».
E, per finire, un ultimo elemento discende ancora dalla tradizione nera: lo spettro che dal teatro elisabettiano trasmigrerà nel romanzo gotico e nell'Opera ottocentesca, il visitatore notturno venuto ad accusare il reo e a chiedere vendetta o la liberazione dell'anima prigioniera. Già nel terzo capitolo comincia infatti a fare la sua apparizione nel racconto il fantasma della vecchia gatta uccisa tempo addietro, sarà quindi poi la volta delle gatte e dei gattini vittime della cieca furia del narratore, e tra queste ombre di ombre anche la stessa Autičko: non parlano, non gli elencano i suoi crimini, ma lo fissano semplicemente con aria di rimprovero, accrescendo in lui l'instabilità e il senso di colpa, come i loquaci stormi di uccelli canterini che visitano il sonno inquieto dell'esausto signor Polách, a informarlo dell'inarrestabile carneficina.
Ma è soprattutto l'apparizione di Renda, «quello splendore di gatto» tradito e ceduto a degli estranei, e riportato poi indietro ridotto l'ombra di se stesso, è il suo arrivo sul far del mattino nel quinto capitolo (in perfetta posizione centrale) a introdurre nella narrazione un nuovo ruolo tematico, quello del pubblico ministero, in tal modo arricchendo il testo hrabaliano con elementi del «racconto giudiziario».
«Noi romanzieri siamo i giudici istruttori degli uomini e delle loro passioni...» (E. Zola)
Per riuscire a focalizzare il racconto sull'idea di colpa ed espiazione, la storia della gattina Autičko deve infatti diventare (anche) un racconto giudiziario, con atti d'accusa e requisitorie e arringhe difensive, oltre a poter contare su una precisa – benché fluttuante – distribuzione dei ruoli tra i personaggi, e questo proprio perché il racconto giudiziario favorisce l'alternanza di «punti di vista diversi» e invita il lettore «a riflettere sul "caso", a soppesare le molte verità [...], a interpretare le circostanze, i motivi, i gesti». Insomma: quello che interessava al nostro autore.
Non casualmente l'intero racconto è tramato di un lessico giuridico in cui spiccano: delitto, tribunale, accusato, condannato, testimone della corona, e poi posizioni che si aggravano, figure di innocenti e casellari giudiziari (con annesse condanne da cancellare), e finanche plotoni d'esecuzione, impiccagioni e decapitazioni, vestigia di una «giustizia» di ancora fresca memoria.
E poi i ruoli attinti direttamente dalle aule giudiziarie. Il narratore sembra l'unico a ricoprirli tutti: prima lui è accusato (dalla moglie, poi dai gatti e dalla propria coscienza, infine dall'intera famiglia Polách); poi è testimone, benché alquanto reticente, nella querela presentata da Polách (parte lesa) nel capitolo in cui lo schema giudiziario si presenta allo stato puro; in seguito il protagonista è lui stesso accusatore nei confronti dei suoi gatti, in risposta a Polách, e infine – ovviamente – giudice e giustiziere quando emette le sue sentenze sui gatti. Ma anche i gatti mutano ruolo nel corso del racconto, e da vittime e accusatori si trasformano in giudici feroci (nella vicenda del coniglietto) o in pubblico ministero, come il gatto Renda che, nella sua apparizione notturna, rivolge al narratore la sua dura requisitoria, venata di tenerezza e introdotta dalla lucida confessione del narratore: «ero io stesso ad autodenunciarmi, ero io a citare me stesso in giudizio, a iscrivere me stesso nel registro degli indagati e a notificarmi i capi d'imputazione».
[…] Pur dissimulato nei panni fuorvianti della «biografia di un personaggio», il racconto Autičko si mostra così come un apologo su colpe e tradimenti, e sulla loro irreversibilità.
Per tornare alla distinzione iniziale tra racconto e cornice, la vicenda raccontata sembra culminare e concludersi con l'incidente automobilistico che segue la decisione del protagonosta (su impulso del guaritore Franta Ferda, figura gemella della veggente Mařenka) di accettare quello che appare il suo Destino, questo qualcosa che ci giunge dall'esterno e azzera quindi le nostre responsabilità. Quell'incidente, che avviene mentre al narratore pare quasi di udire la «fanfara vittoriosa» nella marcia finale di Les préludes di Liszt, sembrerebbe sancire il riequilibrio tra le parti in gioco: alla morte dei gatti la «quasi morte» dei due responsabili. E il racconto sembra davvero volersi concludere circolarmente su un altro "idillio" felino: il ricordo degli inizi poetici dello scrittore nella casetta di Nymburk, «quella s orta di sottomarino» dove, negli anni giovanili, lui e l'amico Marysko se ne stavano «lì distesi, stretti nell'artiglio della Sfinge che attanagliava quei nostri frutti ancora acerbi». Sì, proprio una Sfinge, come quella a cui Oscar Wilde intitola una graziosa poesiola dedicata al suo «curioso gatto», «squisito grottesco», «mezzo donna e mezzo animale».
Certo, quel finale sarebbe stato anche possibile, ma i segnali disseminati nel testo miravano altrove e l'Epilogo non farà che confermarlo, raccontando altre due vicende «straordinarie»: quella della tifosa dello Sparta, cacciata dal suo posto allo stadio nello stesso istante in cui viene a sapere - dal «re dei comici» - della fucilazione del padre dopo l'attentato al Reichsprotektor nel '42, e quella dello splendido cigno che preferisce lasciarsi morire incollato al ghiaccio, mentre il protagonista fa di tutto per salvarlo. Nella prima vicenda, a parlare è la Storia (come nelle tante fotografie ricordate nel corso del racconto: dal Vietnam al Libano), nell'altra solo la biografia di un personaggio, il narratore, che vorrebbe con quella vita riequilibrare la bilancia delle colpe. Ma responsabilità e tradimenti sono irreversibili. Come fossimo in un racconto di Kafka, quel «casellario giudiziario» dove far gocciolare il nostro bianchetto è inaccessibile, e il testo ci ammonisce sull'impossibilità di ripulire la coscienza con un semplice gesto uguale e contrario.
E forse non è nemmeno casuale se, in quel capitolo finale che quasi esordiva col ricordo di My Lai e altri massacri, nella testa del narratore al momento dell'incidente riecheggiassero proprio le note di Liszt che accompagnavano la messa in onda dei bollettini d'informazione via radio della Wehrmacht e i cinegiornali nazisti.