In questi anni, si discute molto su chi ha diritto a scrivere cosa. Fino a che punto un autore borghese può immedesimarsi in un personaggio working class, fino a che punto una scrittrice bianca può farsi nera, e questo dibattito si è esteso anche al mondo della traduzione: chi ha diritto a tradurre cosa? C’è chi dice che personaggi queer debbano essere tradotti da soggetti queer, chi sostiene che la traduzione sia sempre un’operazione autenticamente fluida che vive in un mezzo, e chi si augura di somigliare al soggetto scrivente il più possibile, proprio per non perderlo e non perdersi.
A chi dovevo somigliare io per tradurre Brevemente risplendiamo sulla terra? A quali ferite e mancate ricomposizioni dovevo attingere, a quale storia di una famiglia e di una migrazione dovevo rifarmi? Per com’è andata la mia storia personale, avevo infiniti punti di accesso, dalla povertà alla violenza domestica; c’erano varie cose che mi somigliavano, e che mi avrebbero reso la traduttrice perfetta, per banali ragioni di vita e anagrafe. Ma la vera somiglianza l’ho trovata altrove: la cosa che mi somigliava di più, universale nella sua dittatoriale pretesa di bellezza, vera per me come per Vuong e Trevor e chiunque leggerà questo libro, stava nel modo in cui ci si innamora. Nel modo in cui il sesso chiede e vuole, quando per la prima volta capiamo che «c’era qualcosa di ancora più brutale e assoluto del lavoro – la voglia.» Questa cosa è stata vera, lo è sempre. È il punto di origine di una storia riconoscibile e condivisa, ed è il punto da cui ho iniziato davvero a tradurre, anche se arriva solo a pagina 116.
C’erano infinite soluzioni per stabilizzare la forma di un testo caotico e riottoso come questo. Ci sono scelte che ho fatto da sola, altre che sono arrivate dopo una conversazione con la mia editor, la persona che ha curato la revisione di questo libro, in un’operazione promiscua dentro e fuori la scrittura, per stabilire chi poteva impossessarsi di qualcosa e chi doveva lasciare andare, perché all’improvviso c’era qualcun altro. Sono sue le «lamelle di sangue» – io avevo scelto «scaglie», Vuong «splinters» –, sua la «pelle trascorsa»: per me era «pelle smutata», Vuong ha usato «unmolted skin». Chi immagina la traduzione come una storia di desiderio e conflitto tra due persone, non si accorge che è sempre un triangolo, in cui arriva un altro a rivelare la lingua invisibile che giace sotto.
E poi c’era un titolo impossibile da tradurre: niente è degno di On Earth We’re Briefly Gorgeous, perché On Earth We’re Briefly Gorgeous è un verso, un salmo, ma c’è una ruvidezza americana che non lo rende mai davvero «santificato», cosa che accadrebbe invece in italiano con una traduzione letterale. Tra le proposte c’era «Cade la nostra luce su questa terra», ma il verbo «cadere» avrebbe dato una dimensione negativa a un romanzo che invece è di assalto e riscatto, per quanto provvisorio. Invece «brevemente», l’avverbio massacrato e mai davvero voluto dalla lingua italiana, resta interrotto e alieno. Ci sono libri che mi hanno insegnato a tradurre e che mi hanno dato una progressiva competenza tecnica. Ci sono libri che hanno migliorato la mia scrittura, perché mi hanno costretta a sparire solo per riprovare a livelli più alti di consapevolezza. E poi ci sono i libri che mi hanno ricordato cosa significa essere una preda su questa terra e come si convive con la libertà che perdiamo quando diventiamo un altro, ed entriamo nel corpo di un altro. È una lezione sentimentale, che passa attraverso la scrittura, e che lascerà più cicatrici di altre, perché non riguarda il risultato ma il processo: senza volerlo, Ocean Vuong ha scritto un romanzo sulla traduzione. Sulla perdita di una lingua, e la ricerca di una nuova madre. C’è un verso vecchio della poetessa Diane di Prima che dice «Stanotte dormirò con un diamante sotto la lingua, e tu verrai a dargli la caccia.» Brevemente risplendiamo sulla terra è stato, nella mia vita e in quella di chi lo leggerà, proprio questo diamante. Anche questo, come il resto, l’ho capito soltanto dopo.