La casa editrice Playground ha già pubblicato un romanzo di una scrittrice canadese ancora sconosciuta in Italia, Helen Humphreys, si tratta di Cani selvaggi, ed ha avuto su di me e su tutti quelli che lo hanno letto, un impatto talmente viscerale che, quando mi è stato chiesto di occuparmi della traduzione di un secondo testo della stessa autrice, mi aspettavo qualcosa di altrettanto istintivo e assoluto.
Il giardino perduto è riuscito a stupirmi. È stato scritto nel 2002, due anni prima di Cani selvaggi, e pur contenendo molti dei temi diventati poi centrali in quest’ultimo, si presenta come un’esperienza molto più rarefatta, delicata e intima del primo libro pubblicato da Playground.
Il romanzo si apre sulla protagonista, Gwen Davis, che abbandona una Londra martoriata dai bombardamenti tedeschi, per recarsi in una tenuta requisita del Devonshire e assumere il comando di un gruppo di ragazze, reclutate per contribuire allo sforzo bellico coltivando patate.
Nella tenuta, Gwen scoprirà un misterioso giardino abbandonato, che costituirà per lei un vero e proprio rebus floreale e che coltiverà con amore fino a considerarlo la propria casa. Col passare dei giorni, Gwen, che fino ad allora era stata una creatura diffidente e solitaria, conquisterà anche l’amicizia di Jane. Una ragazza, che con la sua forza nevrotica e la sua travolgente schiettezza, sembra presentarsi come l’esatto opposto della protagonista, ma che, in realtà, manifesta solamente in modo diverso lo stesso fondamentale bisogno che tortura la schiva Gwen, quello di amare ed essere amata.
E nella tenuta, Gwen incontrerà anche l’amore, un amore represso e quindi ancora più appassionato, il sentimento insicuro e tormentato di una donna, che è sempre stata esiliata da ogni calore, a cominciare da quello materno.
La Gwen di Helen Humphreys è un personaggio magnifico, una donna malinconica, disperatamente e silenziosamente affamata di vita, piena di sincera ammirazione per la bellezza, quella della natura e anche quella umana, ma dolorosamente consapevole di essere una creatura “ordinaria”, bandita alla nascita dal suo regno. Un ritratto delicato e tormentato, degno delle donne grigie e formidabili di Barbara Pym o di quelle inquiete di Christa Wolf.
La scrittura della Humphreys, sempre e comunque asciutta e minimale, assume già dalle prime righe il colore ellittico e la potenza evocativa della poesia, ed è proprio la poesia, insieme alle piante e al loro simbolismo, a costituire un fil rouge che guida il lettore attraverso la scarna, ma appassionante trama del romanzo. Non a caso su tutta la storia aleggia, quasi a mo’ di nume tutelare, la fantasmagorica figura di Virginia Woolf.
Tradurre questo libro non è stato un laborioso parto, come spesso accade; le parole si sono concatenate in frasi con naturalezza, vuoi per la nitidezza di scrittura della Humphreys, vuoi per la capacità del personaggio di Gwen di avviluppare il lettore, e a maggior ragione il traduttore, in un immediato turbine di empatia, è facile vedere il mondo con gli occhi di questa donna. La mia maggiore preoccupazione, ad una prima lettura del testo, era stata quella di non riuscire a rendere efficacemente l’intensità della “prosa poetica” della Humphreys, ma mentre traducevo mi sono accorta che bastava assecondare le emozioni che di volta in volta il romanzo produceva in me, per riuscire a trovare le parole che mi sembravano più adatte a descriverle.