Il Lamento del prepuzio è il primo libro che abbia mai tradotto in vita mia. Un’esperienza molto faticosa, ma decisamente entusiasmante. Il mio lavoro, in realtà, da oltre vent’anni, è quello di tradurre e adattare film stranieri per il doppiaggio italiano.
Il linguaggio di Shalom Auslander mi è familiare. Avendo vissuto io stessa a Manhattan per dieci anni, so bene che gli ebrei ultra-ortodossi a New York sono numerosi, e le loro yeshiva, a detta di tutti, sono probabilmente le più severe e integraliste al mondo.
Ricordo che proprio di fronte a casa mia c’era la scuola ebraica più importante di Manhattan. Durante l’intervallo, bambini e ragazzi venivano portati nel parco vicino, Riverside Park, dove sedevano sulle panchine a mangiare i loro panini, recitando in coro lunghe preghiere in yiddish. Erano pallidi, quasi tutti sovrappeso, composti, con in testa la yarmulka che continuava a scivolare. Guardavano con aria triste i loro coetanei di Collegiate School (altra scuola del quartiere) che urlavano, correvano, sudavano, e insomma facevano quello che tutti i ragazzi di quell’età fanno nell’intervallo dalle lezioni.
Leggendo Auslander e i suoi ricordi delle varie yeshiva da lui frequentate, quei ragazzi dall’aria malinconica mi sono tornati in mente con chiarezza. Il sense of humour di Auslander e il suo modo di raccontare fatti e pensieri sono quanto di più «ebraico-newyorkese» si possa immaginare. Non a caso, in quasi tutte le recensioni (soprattutto americane) si fanno confronti con Groucho Marx, Philip Roth e naturalmente Woody Allen.
È uno spirito caustico, intriso di pessimismo, molto pungente. E qualche volta difficile da rendere bene in italiano. Io, per quanto riguarda i film di Woody Allen, ho sempre usato una specie di trucchetto che ho applicato anche per Il lamento del prepuzio. Traduco dall’ebraico-newyorkese in romanesco, e poi lavoro sul risultato fino a raggiungere una battuta italiana accettabile. Infatti lo spirito dei miei concittadini si avvicina molto a quello degli ebrei newyorkesi, intriso com’è di cinismo e apparente crudeltà.
Auslander ha un linguaggio molto ricco, usa aggettivi, sostantivi e verbi non usuali, e fa largo uso di parole o espressioni yiddish. Poiché sono abituata a scrivere dialoghi, il problema principale è stato affrontare i periodi lunghi, le ripetizioni volute, la consecutio temporum piena di trabocchetti. Il vantaggio è stato non dover fare i conti con il sincrono e la lunghezza delle battute. Insomma, un lavoro completamente diverso che all’inizio mi ha sconcertato, ma che poi mi ha appassionato. Auslander ha detto in un’intervista che tutto quanto racconta in questa sua autobiografia è purtroppo vero: le angosce, la droga, il sesso, il terrore di un Dio punitivo e implacabile. E in effetti è lunga e difficile la strada che questo essere umano deve percorrere per liberarsi (mai del tutto, però) di tutto ciò che una famiglia e una scuola integraliste gli hanno messo dentro.
Per la copertina dell’edizione italiana, Guido Scarabottolo ha disegnato una enorme nuvola nera con le sembianze di Dio, e un piccolissimo uomo che alza urlando il pugno verso il cielo. Non avrebbe potuto rendere meglio lo spirito del libro.