Negli anni 1950 e ’60, Finney era una firma regolare di Collier’s e The Saturday Evening Post e dal suo romanzo Gli invasati è stato tratto uno dei più noti film della paranoia nazionalista americana di quegli anni, quella Invasione degli ultracorpi in cui creature venute da un altro pianeta – baccelloni vegetali – si sostituiscono agli uomini assumendone l’aspetto. Il film è giocato sull’allarme per le attività antiamericane allora ricercate dalla commissione del senatore McCarthy, ma oggi, dietro l’apologo di Finney, vediamo soprattutto l’aspetto distruttivo di quegli invasori, che passano da un pianeta all’altro, da un luogo all’altro, distruggendone con indifferenza la civiltà e gli abitanti e lasciando dietro di sé la terra devastata.
Ma ogni Waste Land è prima di tutto interiore e negli anni seguenti Finney parve giungere alla conclusione che i devastatori distruggono per prima cosa i nostri sentimenti. Ne sono testimonianza molti racconti e alcuni romanzi tra cui il più noto è questo Indietro nel tempo, che sembra voler arretrare fino agli anni 1880 l’inizio dei malesseri sociali odierni. La storia parla di un pittore, Morley, che per la sua memoria visiva, fotografica, viene scelto per un progetto governativo di viaggio nel tempo.
Ricostruendo nella propria mente un momento del passato, con tutti i suoi aspetti, e ancorandosi a qualche edificio storico rimasto immutato da allora, si può ritornare indietro nel tempo: una parte del progetto prevede di ricostruire determinati ambienti e momenti del passato per sintonizzarsi su di essi. Morley è il più promettente dei potenziali viaggiatori ed è scelto per indagare su un antico fatto di cronaca legato al tramonto di un promettente uomo politico. Trascorsi alcuni mesi a visualizzare il 1882 di New York, quando mancavano vent’anni alla costruzione dei primi grattacieli e gli edifici più alti erano la vecchia cattedrale e il Dakota – il palazzo sul Central Park, terminato nel 1880 e oggi abitato dagli artisti più noti – Morley si sveglia una mattina e ha la conferma di essere giunto nell’anno desiderato. Prende in affitto una camera in una pensioncina e inizia lo studio della New York di quell’epoca, quando era solo una grossa città portuale dove tutti si conoscevano e attorno al centro della città c’era solo la massicciata delle strade, già tracciata e battuta, di qualche metro più alta del territorio circostante, ma ancora priva di edifici. E come il piano regolatore già adombrava la metropoli dell’avvenire, anche nei devastatori dell’epoca si poteva vedere lo stile di quelli futuri: Morley, che di quell’epoca ha scoperto la serenità e la pace, si troverà davanti a uno di essi, che nella città vede solo qualcosa da sfruttare per le proprie egoistiche finalità.
Per il traduttore, un romanzo di questo genere significa soprattutto un’occasione per conoscere una inedita New York priva delle sue caratteristiche odierne. Per ben misurare il confronto tra il presente e il passato è importante la corrispondenza tra i luoghi, ma è sufficiente una buona guida della città per eseguire i controlli e integrare i dati che il lettore italiano non è tenuto a conoscere. L’autore si è documentato in modo molto approfondito, procurandosi foto d’epoca di edifici successivamente abbattuti, delle fasi della costruzione del ponte di Brooklyn (completato nel 1893) e di fatti curiosi, come la lunga anticamera fatta dalla Statua della Libertà, i cui pezzi rimasero per anni parcheggiati nei giardini cittadini perché mancavano i fondi per sistemarla al suo posto. Interessanti e in un certo modo rivelatori gli articoli tratti dai giornali newyorkesi e riprodotti nel romanzo. Lo stile degli articoli è molto più moderno di quanto non si possa supporre (molto più moderno di quello dei giornali italiani dell’epoca) e anticipa lo stile sobrio, stringato, efficace che qualche decennio più tardi si affermerà nella generalità della letteratura americana.