C’è il ragazzo Jim Hawkins, scampato alle violente e tragiche avventure dell’ Isola del Tesoro, che, ormai adulto, riapre la locanda dell’Ammiraglio Benbow con il denaro mal guadagnato e lì si rifugia per dimenticare e per meditare sulla tremenda lezione di vita ricevuta solcando i mari. Jim è la voce narrante di questo bel romanzo dello spagnolo Jesús del Campo che si è divertito a dare un seguito al destino del piccolo eroe delle nostre letture adolescenti, tramutandolo in un riflessivo e compassato giovanotto che ha messo radici sulle alte scogliere d’Inghilterra e da lì contempla un mondo attraversato dalle innovative idee dell’Illuminismo e dalle avvisaglie rivoluzionarie. Jim non viaggia, aspetta nella quiete della locanda che il mondo venga a lui nella veste dei pochi e selezionati ospiti, provenienti da mezza Europa, accuditi dalla materna e discreta miss Collins e portati in quel luogo dalle vicende della vita. Qualcuno vi si ferma fino alla morte, come Geoffrey Anderson, dal passato che sa di pirateria, altri vi passano e seminano inquietudini e riflessioni, come il savio Luis Guillaume Grossac che insegna il francese al giovane Jim e lo introduce alle idee dell’Enciclopedia. La locanda dell’Ammiraglio Benbow è il luogo degli incontri e della conversazione: ogni ospite finisce col raccontare sia le sue personali vicende (spesso inenarrabili) che aneddoti ed esempi utili a sostenere una tesi, a dare un’indicazione di stile di vita, ad appoggiare una tesi piuttosto di un’altra.
Si tratta, dunque, di un romanzo intellettuale, di un pretesto dell’autore per riflettere sulle epoche storiche che annunciano grandi e rivoluzionari cambiamenti, sullo sconcerto e la curiosità di chi vi si trova immerso non per scelta, ma per la tirannide della storia. Per fare ciò l’autore ha scelto di mettere in pagine la voce e i pensieri di Jim, un giovane che ha vissuto un passato di violenza, che non ha studiato, ma che dai viaggi e dall’esperienza ha ricavato alcune inquietudini alle quali vuol dare soluzione. Jim non è colto ma si lascia affascinare dalla cultura e dalla elegante intelligenza della lingua francese che riesce a dire novità rivoluzionarie che l’inglese non sembra in grado di esprimere.
Jim è inglese, ha conosciuto la lingua franca dei pirati, ama la razionalità del francese, ma chi lo fa parlare è un autore spagnolo che inventa per il suo personaggio un linguaggio artificiale, a tratti improbabile.
Di questa voce narrante ha dovuto tener conto il traduttore poiché l’autore ha voluto costruirgli un linguaggio suppostamente settecentesco, volutamente pedante, pieno di circonloqui e lento come il dipanarsi del pensiero di una mente che comincia appena a riflettere. E’ per questo che la mia scelta è stata quella di mantenermi il più fedele possibile a quel linguaggio, a quello stile che ho ritenuto strettamente legato all’operazione intertestuale messa in pagina da del Campo.
Finita la stesura siamo state d’accordo io e Ginevra Bompiani (una delle editrici), sul fatto che l’italiano reggeva meno bene dello spagnolo quel lungo fraseggiare fitto di subordinate e che fosse indispensabile spezzare quel soffocante raccontare, irto di deviazioni e commenti. Lo abbiamo fatto, credo, con leggerezza e rispetto e ne è venuto fuori quello che, a mio giudizio, era l’intenzione dell’autore: un racconto fatto di racconti, un coro di voci diverse ma unificate dalla voce narrante, un coacervo di idee e di stimoli alla riflessione sui grandi temi della vita come pedine di una scacchiera alle quali solo l’azzardo del gioco e l’abilità del giocatore potranno dare un destino finale.