Tradurre la bellissima autobiografia infantile di Hugo Hamilton, The Speckled People, è stato come iniziare un Giro d’Italia ciclistico con un gran premio della montagna alla prima tappa: scalato il pendio che pareva impossibile scalare, il resto è sembrato quasi una passeggiata in discesa. E di questa prima, affascinante salita vorrei parlare.
Nel libro, l’autore descrive la propria curiosa, triste e insieme buffa infanzia in bilico fra due culture diverse, in un periodo storico in cui non esistevano concetti che oggi ci sono familiari, come la “multiculturalità”, e in cui le ferite inferte dalla Seconda guerra mondiale erano ancora aperte sul volto dell’Europa. Figlio di un irlandese, furente nazionalista, e di un’immigrata tedesca a Dublino, insieme ai fratelli Hugo è costretto dal padre, con maniere decisamente forti, a usare esclusivamente le due lingue di famiglia: il tedesco, con la mamma dolce e sognatrice che non parla irlandese, e il gaelico, la lingua degli avi perduti. Il che, nella Dublino completamente anglicizzata degli anni ’50 e ’60, lo espone al dileggio e addirittura alla violenza dei coetanei quando si attiene alla regola paterna; e a severi castighi inflitti in casa quando la regola è contravvenuta parlando, canticchiando o anche solo ascoltando gli altri ragazzi che giocano fra loro, in inglese. La sola eccezione è rappresentata dalle visite di parenti che non parlano irlandese, per cui ai piccoli Hamilton è concesso di parlare inglese con zii e cugini per lo spazio di un pomeriggio, cosa che contribuisce ad aumentare la confusione e complicare la ricerca di un’identità certa.
Per riuscire nell’intento di comunicare ai suoi lettori l’atmosfera della piccola babele domestica nella quale gli è toccato in sorte di vivere, Hugo Hamilton riproduce continuamente nel suo testo inglese parole e frasi prese dal tedesco e dal gaelico (mai come in questo caso è giusto e necessario parlare di una lingua-madre e di una lingua-padre); e già all’inizio del secondo capitolo egli pone il suo traduttore davanti un ostacolo che non può assolutamente essere ignorato.
Siamo davanti al passo che, insieme, spiega il titolo dell’opera (letteralmente, in italiano, “i macchiati” o “la gente maculata”, per esempio) e ne offre la chiave interpretativa principale: l’essere due cose insieme, la sensazione – sconcertante per un bambino – di portare con sé due eredità culturali senza sentirsi realmente parte né dell’una, né dell’altra.
L’aggettivo che descrive questa situazione, “speckled”, viene usato come sinonimo della parola “brack”; la quale tuttavia è già in sé una traduzione della parola gaelica breac, che «...significa pezzato, screziato, maculato, punteggiato, colorato». Ma il traduttore che cerchi il termine “brack” sul vocabolario inglese-italiano o su un dizionario inglese non lo troverà, se non associato nel lemma “barm-brack”, come sua contrazione, unico vestigio rimasto del transito dal gaelico all’inglese: e si tratta del nome di un dolce lievitato e farcito di uvette, cosicché tagliandone le fette queste risultano screziate come il mantello di un animale. Dunque l’autore parla di sé e della propria famiglia usando un aggettivo, brack, che non ha traducenti attestati in italiano, e il cui sinonimo inglese “speckled” viene generalmente applicato agli animali; allo stesso tempo, da quell’aggettivo non si può prescindere, perché rappresenta il perno sul quale il libro è incentrato. Ecco quindi la prima e più grossa sfida di tutto il libro: come portare tutto questo verso l’italiano, senza appoggiarsi alla fatidica stampella della Nota del Traduttore?
Ci ho pensato a lungo, rileggendo quelle righe e ripetendomele ad alta voce per giorni, e sono state le orecchie a suggerirmi la possibilità di una soluzione. Brack, brack, brack: come “bracco”. Un sostantivo al posto di un aggettivo è un cambio di valuta nel quale non si perde moltissimo, e il bracco è un animale, e un animale pezzato, maculato, punteggiato. Brack, però, non significa “bracco”: come giustificare una scelta del genere? Ho indagato sulla possibile parentela etimologica fra i due termini e non mi è stato possibile accertarla, benché non sia nemmeno potuta giungere a conclusioni che la escludessero totalmente. Il “bracco” italiano deriva dal franco “brak”, legato in origine a una radice indoeuropea che fa riferimento all’azione di portare, e il radicale originario del gaelico “breac” è difficile da ricongiungere al percorso etimologico che conduce al bracco; ma l’immagine del cane da caccia maculato era ormai diventata irrinunciabile nella mia testa. Mi è venuto in parziale soccorso William Shakespeare, che in Re Lear nomina per bocca del Buffone una segugia: «...Lady the brach may stand by the fire and stink» (Atto I, scena IV). Insomma mi è parso che da un punto di vista letterario, se non strettamente filologico, la mia scelta si potesse difendere.
Avrei tradotto così: i brack Irish di Hamilton sarebbero diventati i bracchi d’Irlanda. Hugo e i suoi fratelli, non bambini irlandesi qualunque, ma segugi dal pelo maculato, il muso a terra teso a fiutare la pista giusta per tenersi in equilibrio sul confine fra due mondi, le orecchie ritte a captare la molteplicità dei segnali intorno e tentare d’individuare un’identità propria, le zampe scattanti per il viaggio arduo dalle lingue imposte alla lingua desiderata, l’inglese, seguita e stanata come una preda. Credo di non aver sottratto nulla al testo originale, alle parole dell’autore, alla descrizione intima e sofferta di quei bimbi più ricchi e insieme marchiati per la mescolanza delle loro origine; e credo anzi, di aver regalato loro qualcosa.