Metodo – Parlare di ritraduzione, per Le vite di Dubin, significa entrare in una zona intermedia tra revisione e traduzione ex novo. La ritraduzione, in questo caso, si è svelata in corso d’opera, quando quella che era iniziata come una revisione pura si è spinta sempre più sul versante della traduzione. La si può definire tale, forse, perché è una revisione che pur partendo da una traduzione esistente va a modificare alcuni elementi di strategia e d’impianto di quanto già c’è. Ma è una strategia che, rivelandosi anch’essa lungo il percorso, va poi verificata a posteriori. Re(tro)traduzione?
Strategia – Il primo elemento che mi è parso necessario nella nuova versione delle Vite di Dubin è l’aggiornamento. L’edizione precedente (tradotta da Bruno Oddera per Einaudi nel 1981) presentava alcune soluzioni – i pronomi, «egli», «ella», l’uso del passato remoto in gran parte dei dialoghi, alcune scelte lessicali: «giacere desto», «le brezze salse», «il bombo», «immaginosamente» – che a un orecchio odierno suonano desuete o auliche.
Questo vale anche per alcune questioni di registro: in particolare, durante i primi incontri tra Dubin e Fanny – la ragazza disinibita e insicura che alla guida di un malconcio Maggiolino arancione (una classica «annunciazione malamudiana», per usare le parole di Cynthia Ozick) sconvolge la routine del biografo di mezza età – Malamud crea un sottile contrasto tra il fraseggiare di Dubin, colto, infarcito di citazioni e un po’ irrigidito, e lo stile più hip e vitale di lei, fresca reduce da una comune anni Settanta.
Non solo svecchiamento, però il tentativo è stato quello di mantenere la limpidezza che la prosa di Malamud riesce a conservare in un testo così lungo e a tratti complesso, ricco di incisi, caratterizzato dal linguaggio colto anche nel dialogare con sé stesso e con gli altri di Dubin, conoscitore delle vite altrui ma, forse, meno della propria. E proprio l’alternarsi tra la lucidità che il protagonista trova nel descrivere le vite degli altri e l’incertezza che accompagna l’irruzione nella sua vita della passione per Fanny, si rispecchia nelle scelte narrative dell’autore. La scrittura di Malamud si caratterizza qui per alcune soluzioni particolari, come gli improvvisi scarti verbali, con l’uso del presente gnomico che s’inserisce nella narrazione al passato: ho scelto perciò di mantenere certe asperità narrative che fin dalle prime pagine contribuiscono a presentarci con maggior immediatezza Dubin. Talvolta, nei passaggi caratterizzati da questa tecnica verbale, la narrazione lascia bruscamente il posto alla riflessione su quanto accade, senza che sia subito chiaro se a interrogarsi sia Dubin su sé stesso o il narratore su di lui. Le vite di Dubin: (auto)biografia di un biografo?
Dubin & co. – Il biografo, come altri personaggi malamudiani, è portatore di una creatività faticosa.
Non il genio: ma l’uomo che combatte con l’arte, ci si accapiglia, che siano le biografie di Dubin, i tentativi pittorici dei Ritratti di Fidelman, i racconti del giovane Mitka nel Barile magico. Ma l’arte lo beffa, lo elude, lo sconfigge. Ad accomunare Dubin ad altri personaggi di Malamud, infine, c’è la sua frequentazione italiana.
Ma anche nelle ambientazioni più turistiche – Roma, Firenze, Venezia, le isole del lago Maggiore – si tratta di un’Italia tutt’altro che oleografica, postbellica, dalla vita faticosa, difficile e dalle ambientazioni sordide, dove anche Venezia, come per Lawrence, si presenta écoeurée, «odiosa, verde, lubrica».