Heinrich Bluntschli è il nome del protagonista del romanzo di Markus Werner, Enrico l’egiziano. Nel titolo si è scelto di tradurlo per conservare anche in italiano il richiamo evidente all’Enrico il Verde di Gottfried Keller, il maestro svizzero del realismo ottocentesco. Numerosi sono infatti nel libro di Werner i riferimenti, più o meno espliciti, a questo fondamentale romanzo di formazione, a cominciare dal «nodo drammatico dell’insufficienza del protagonista al suo compito», di cui parlava Leonello Vincenti, traduttore dell’opera kelleriana per Einaudi nel 1944. Anche quella di Heinrich Bluntschli può essere considerata la «storia di un fallimento», definizione usata (almeno per la prima redazione dell’opera) dal grande germanista Ladislao Mittner a proposito dell’aspirante pittore Heinrich Lee, detto il Verde per il colore del suo giubbetto.
È un trisnipote a ripercorrere le vicende dell’Heinrich werneriano, in buona parte mitizzate dalla famiglia, a seguire il percorso compiuto dall’antenato circa un secolo e mezzo prima partendo da un paesino della Svizzera tedesca fino ad arrivare in Egitto, abbandonando moglie e figlio per crearsi una nuova, più numerosa famiglia, passando dai molti insuccessi professionali in patria alle «magnifiche sorti» in terra straniera: la mitologia familiare narra persino di un suo «ruolo determinante nella costruzione del canale di Suez».
Per la terza volta ho occasione di confrontarmi, in qualità di traduttrice, con le storie, i personaggi, la poetica di Markus Werner. Un pittore mancato era il protagonista del romanzo Di spalle (1989), mentre A presto (1992) narrava di un uomo in lista d’attesa per un cuore nuovo. Figure disincantate e ironiche, storie intense, tragiche persino, storie di inettitudine rispetto al mondo, temi cruciali, ambiziosi quali l’amore, la morte (persino quella di un figlio piccolo), sempre affrontati senza sbavature patetiche. E un altro elemento accomuna questi tre romanzi: la realtà, raccontata con sguardo acuto e profondità psicologica, è accompagnata da un controcanto irreale, fantastico, che nell’Enrico è costituito dal magico materializzarsi degli antenati sotto gli occhi del discendente/narratore.
Scrivendomi, a proposito della mia traduzione, l’autore ha definito Knacknüsse, «noci da rompere», i punti più ostici del suo romanzo, e per un attimo mi sono immaginata, davanti al computer, nei panni del mostruoso schiaccianoci di hoffmanniana memoria.
Lo stile di Werner, più ispido e frammentario nei primi romanzi, si è fatto forse più fluido col tempo, più conciliante, ma non per questo meno stimolante per il traduttore, cui spetta sempre il compito di rendere la laconicità, la levità dello sguardo, la delicata armonia fra tragico e comico.
La scrittura di Werner non ha perso l’umorismo graffiante rivolto al suo paese, la Svizzera – «niente riusciva e riesce a ferirla con più violenza dell’idea di non essere minacciata da nessuno» –, al suo tempo – come nell’ossimoro usato per descrivere una strada di Zurigo: «La Bahnofstrasse apparteneva al presente: con il suo mortorio di luci e animazione» – e all’esperienza umana in generale – «e, avvolto dai gas di scarico, mi sforzavo di approvare il progresso e non rimpiangere il passato come un borghesuccio». Immagini, situazioni da cui affiora, strappando un sorriso, una tenace inadeguatezza alla vita.