Quelli di sotto (Los de abajo), del messicano Mariano Azuela, fu pubblicato per la prima volta nel 1915 a El Paso, Texas, dove l’autore, un medico al seguito dei rivoluzionari, si era rifugiato dopo la sconfitta delle truppe fedeli a Pancho Villa. Fu scritto in gran parte nelle soste durante una campagna militare e uscì a puntate sul quotidiano El paso del Norte, ma rimase sconosciuto fino al 1925. Considerato il romanzo iniziale del ciclo della rivoluzione messicana, è diventato un classico, è stato portato sugli schermi e tradotto un po’ ovunque. La prima traduzione italiana, di Attilio Dabini per Mondadori, risale al 1945 e risente purtroppo della mancanza di un’edizione critica dell’originale. Io ho potuto lavorare su quella curata da Jorge Ruffinelli, corredata da un ricco apparato di note e da un sostanzioso glossario che hanno facilitato la soluzione di parecchi dubbi amletici. Infatti, non è soltanto il secolo trascorso dall’uscita del romanzo a complicare la vita del traduttore, con la presenza di termini desueti o che indicano cose ormai inutilizzate da tempo, né il fatto che l’autore ricorra spesso a regionalismi. Piuttosto è problematica l’abbondanza di veri e propri localismi, sconosciuti anche ai messicani colti – espressioni oggi fortunatamente rintracciabili in rete con qualche accurata ricerca –, e soprattutto l’uso di una terminologia storico-politica molto specifica, ricca di neologismi, riferita alla fase storica attraversata dalla rivoluzione messicana.
Di grande aiuto è stata anche la consultazione della corrispondenza intercorsa fra l’autore e il suo traduttore inglese, Lawrence B. Kiddle, il quale, pur disponendo di dizionari specialistici, gli sottopose una lunga lista di termini ed espressioni di ardua interpretazione. Azuela acconsentì con estrema gentilezza riempiendo cinque fogli di risposte dettagliate, corredate persino da disegni esplicativi. Si scopre così, per esempio, che il termine latrofacciosos, ovvero ladrones-facciosos, era l’insulto riservato ai rivoluzionari da parte della stampa che sosteneva Porfirio Díaz e Victoriano Huerta, e così pure comevacas, appellativo che li denunciava come ladri di bestiame. Dal canto loro gli insorti ricorrevano contro i “federali” al termine dispregiativo mocho, nel senso di bigotti, baciapile, riferito alle concezioni religiose dei conservatori; mentre i poliziotti, nella parlata popolare, sono los cuicos. E ancora: le donne del popolo chiamavano le uova blanquillos, e una gallina che covava era echada (e non clueca).
Simili particolarità linguistiche, peraltro, di cui il romanzo è infarcito, non sono affatto gratuite né frutto di un vezzo dell’autore. Il sottotitolo della prima edizione, che costituisce un’efficace sintesi del contenuto, recitava infatti: “Quadri e scene della rivoluzione in corso”. Trattandosi di un romanzo corale che ha per protagonisti “quelli di sotto”, vale a dire gli umili, gli sfruttati, doveva ovviamente ricalcare, soprattutto nei numerosi dialoghi, lo stile della parlata popolare, con le sue tipiche deformazioni non sempre intelligibili di primo acchito. Fra i rivoluzionari però militano anche degli intellettuali, e la loro oratoria è retorica e ampollosa, così come quella di un ufficiale dell’esercito che si rivolge a un superiore, e l’ampiezza di registri stilistici del romanzo non è tra i suoi pregi minori. Il suo pregio maggiore, che ho cercato di evidenziare nella postfazione, rimane la profonda sincerità di Azuela, un idealista che non ha chiuso gli occhi di fronte agli aspetti più sgradevoli della rivoluzione e che ci ha consegnato dunque una testimonianza spassionata e un’opera niente affatto agiografica, e per ciò stesso ancora viva e capace di suscitare polemiche.