Sala professori è un romanzo breve, denso, ironico e surreale sul mondo della scuola, raccontato dalla prospettiva di un insegnante precario. Una scuola retta da quattro pilastri: paura, lagnanza, facciata e menzogna, il primo dei quali portante. La paura di tutti nei confronti di tutti pervade il sistema a ogni livello, è «il collante che tiene coeso il tutto»: per paura si mente, per paura si finge e di tutto ci si lamenta. La paura si sfrutta, con la paura si gioca e si governa, per esempio infliggendo agli insegnanti «torture periodiche» chiamate collegi dei docenti e regole tanto assurde quanto inapplicabili, come la famigerata «regola delle chiavi» cui conseguono le fondamentali «competenze chiave» dei professori. Alcuni si coalizzano nel Gruppo Cospirativo per minare il sistema scolastico vigente, «ma non davvero, solo a parole» per timore di perdere il posto.
L’odissea di Martin Kranich, dal colloquio di assunzione come docente in preruolo in un liceo di provincia al suo quinto e ultimo giorno nell’istituto, è narrata in prima persona in un’alternanza pirotecnica di discorso diretto e indiretto o, per meglio dire, di discorso direttamente e indirettamente riportato nel monologo, cifra stilistica di Markus Orths nonché croce e delizia del traduttore. Rendere adeguatamente in italiano un aspetto tanto importante dell’opera originale pone infatti non poche difficoltà tecniche.
Mentre il tedesco dispone di un modo verbale specifico che codifica il discorso indiretto, consente al lettore di riconoscerlo e, quindi, di seguire senza avvertenze autoriali il continuo passaggio da diretto a indiretto e viceversa (potenzialità che l’autore sviluppa fino alla rinuncia delle virgolette), non altrettanto accade in italiano. A rendere più arduo il compito contribuiscono:
1) la differenza fra l’esplicitazione del soggetto in tedesco, che toglie ogni dubbio sull’identità del parlante, e l’omissione tipica in italiano,
2) la già accennata assenza di virgolette a introduzione del discorso diretto, fagocitato nel monologo del protagonista,
3) la lunghezza dei periodi, composti da varie battute di dialogo intercalate da elementi narrativi o descrittivi, e il ritmo serrato che li contraddistingue,
4) la ripetitività dei verba dicendi tipica del tedesco, disturbante in italiano, e infine
5) la compatibilità, in tedesco, degli elementi deittici spaziotemporali usati nel discorso diretto e in quello indiretto, che in italiano richiedono di essere modificati a ogni passaggio.
Cito per chiarezza un paio di brani esemplificativi:
«Tornammo di sopra carichi di risme di carta, venga, mi chiamò Linnemann, fra cinque minuti si comincia, sbrighiamoci, io entrai in sala professori coi pacchi in mano senza riuscire a vedere gli insegnanti che circolavano a destra, a sinistra, davanti e dietro di me, mi limitai a seguire Linnemann, per di qua, mi gridò, la fotocopiatrice è laggiù, foglio inceppato, sentii urlare dalla zona copiatrice, mancano tre minuti e mezzo, strillò qualcun altro, lei dev’essere Herr Kranich, esordì una donna avvicinandosi, Klüting, piacere, la carta era sempre più pesante, avevo perso di vista Linnemann, responsabile di inglese, disse Frau Klüting, domani c’è la riunione per materia, decideremo se continuare a piegarci alla dittatura della Klett o se l’anno prossimo passare una buona volta alla Cornelsen, dovrebbe essere interessante anche per lei visto che insegna inglese, cosa fa con quella carta? Sievers, geografia, educazione fisica, questo è il mio tavolo, sarebbe così gentile da non appoggiarci, venga qui, sentii la voce di Linnemann, mi ripresi la carta e annuii a Sievers, scusi, dissi, e feci per rivolgermi nuovamente a Frau Klüting che però, proprio in quel momento, venne presa d’assalto da un altro docente».
«Salii al terzo piano, entrai in classe, comunicai ai miei alunni che dovevamo cambiare aula per la questione del videoregistratore. Andiamo a vederci un film? esultarono i ragazzi. No, non noi, spiegai, l’altra classe. Chiesi a uno studente se sapesse dov’era l’aula ST4, lui annuì e io lo invitai a farci strada. Nel frattempo sulle scale era sceso il silenzio, erano tutti in aula, incrociammo soltanto l’undicesima di Linnemann. Ci spariamo l’inizio di Pulp Fiction, gridarono i suoi alunni ai miei, veramente? risposero loro, veniamo anche noi. No, dissi io, e spinsi la mandria giù nel seminterrato».
Ho cercato di calibrare con cura sia il passaggio dal discorso diretto all’indiretto, spostandolo a volte di una battuta affinché il brano non perdesse di chiarezza, sia l’esplicitazione del soggetto, con l’obiettivo di coniugare il più possibile il ritmo e l’ironia dell’originale con la naturalezza dell’italiano.
A livello di strategia generale ho deciso, in linea con gli intenti e il tono dell’opera, di proporre una traduzione più brillante che filologica, concedendomi qualche licenza dalla lettera del testo pur di conservare l’impatto dei giochi di parole e la profonda leggerezza di un libro che si legge d’un fiato ma accompagna a lungo.