Volume d’esordio della scrittrice polacca Magdalena Tulli, alla sua prima uscita nel 1995 Sogni e pietre rappresentò una vera e propria rivelazione. La Tulli è tra i protagonisti del fermento culturale che, nato all’inizio degli anni Ottanta, ha trovato libera espressione a partire dal 1989, in seguito alla caduta del muro di Berlino, all’abolizione della censura e allo sviluppo di un vivace mercato editoriale. Ma il vero fenomeno di quegli anni è stato costituito dal fiorire di una fitta schiera di scrittrici tra cui, oltre alla Tulli, ci limiteremo a citare Olga Tokarczuk, la più nota e tradotta anche in Italia, che riunisce in sé sia il cosiddetto filone delle “piccole patrie”, che indaga su quei mondi ristretti scomparsi con l’Olocausto e la ridefinizione dei confini nazionali, sia quello del “realismo magico”, che trasforma ogni elemento della realtà nel frammento di un universo più grande.
Di “realismo magico” si può parlare anche per la prosa di Magdalena Tulli, nata a Varsavia nel 1955, psicologa per formazione (come la Tokarczuk) e traduttrice dal francese e dall’italiano. Sogni e pietre, pubblicato all’età di quarant’anni, è un libro difficile da classificare. Infatti, pur essendo - per esplicita dichiarazione dell’autrice - un romanzo, del romanzo gli mancano gli elementi fondamentali: la trama, i personaggi, i dialoghi. Definito a ragione dal suo traduttore americano Bill Johnston un “poema in prosa”, esso scardina il concetto tradizionale di “genere letterario”. Il libro è la descrizione della nascita, sviluppo e morte di una città. Non di una città in particolare, ma della città in generale vista come microcosmo chiuso in sé stesso, metafora sia dell’esistenza del singolo individuo che del mondo, anche se da alcuni indizi vi si potrebbe riconoscere Varsavia. Nelle pagine iniziali l’autrice paragona l’universo a un albero e le città ai suoi frutti, ognuno simile e differente al tempo stesso da tutti gli altri. Come una pianta, la città nasce da un piccolo seme e grazie agli sforzi dei suoi costruttori – una massa di uomini senza nome – cresce e si espande secondo un piano ben preciso, un piano geometrico, concepito come perfetto e destinato a rispondere alle necessità e ai desideri dei suoi ideatori. Il piano originario è razionale, chiaro, e viene attuato con entusiasmo, perché costituisce la realizzazione di sogni positivi, nasce da una visione fiduciosa del futuro. Ma a poco a poco lo slancio iniziale si trasforma in una corsa sfrenata, nella ricerca di uno sviluppo fine a sé stesso, e il progetto si snatura: la struttura geometrica della città si deforma, se ne distaccano rami asimmetrici, fuori di ogni controllo, finché il meccanismo si corrompe e infine implode.
Contemporaneamente i sogni e i desideri perdono vigore, si diffonde una tristezza dapprima latente e poi sempre più profonda. Gli uomini perdono ogni entusiasmo nel loro luminoso progetto. La Tulli descrive questo processo inarrestabile nei minimi particolari, dipingendone le continue trasformazioni e mettendo a nudo assurdità e paradossi, finché quella che doveva essere una macchina perfetta non si deteriora e muore. Il lettore penetra nella vita delle pietre di cui sono fatti edifici e monumenti, nonché nei sogni degli individui coinvolti nella crescita della città. Ne rivive l’evoluzione attraverso l’esistenza interiore degli oggetti, delle cose. Smonta la città pezzo a pezzo, scoprendo un altro paesaggio - metaforico - che giace sotto di essa.
Il libro ha vari piani di lettura. Può essere visto come un’opera filosofica sulla vita umana all’interno di una realtà più vasta, analizzata dalla scrittrice con occhio lucido, quasi spiasse una comunità di formiche in un formicaio. La città viene descritta come un microcosmo simbolico, è impersonale, non ha segni distintivi, ricorda la Metropolis di Fritz Lang, o le città di tanti film di fantascienza, o ancora le città ideali di alcuni architetti, dai progetti visionari della metropoli del futuro di Antonio Sant’Elia alla “città radiosa” di Le Corbusier.
Oppure, il libro può essere considerato una metafora della civiltà occidentale, della sua corsa sempre più folle verso bisogni e desideri falsi, autoimposti, e destinata a morire qualora non si corra al più presto ai ripari.
O anche una metafora dell’uomo, del suo sogno irrealizzabile di creare una realtà perfetta, delle sue illusioni destinate a rimanere tali e a non lasciare che un terribile vuoto; un trattato filosofico sui generis che cerca di descrivere la realtà mitologizzandola; un poema narrativo scritto in uno stile distaccato, sobrio, concreto, poetico e ricco di immaginazione assai difficile da rendere in italiano, nel quale si scorge l’influenza delle Città invisibili di Calvino, di Kafka, di Schulz.