La mia esperienza di scrittore nasce con la poesia, quindi si apre alla drammaturgia teatrale e poi alla narrativa. È lungo questo percorso che, con spirito d’avventura e forte incoscienza, mi sono avvicinato alla traduzione delle opere di William Shakespeare. Ma aver a lungo frequentato sia il verso che la scrittura drammaturgica oggi credo sia stata la fortuita combinazione che mi ha fatto trovare la strada per non perdermi nella foresta scespiriana, durante le notti rugiadose o nelle gloriose aurore, sotto alberi di tasso e in boschetti di sicomori, lì dove gli speziali vanno in cerca di piante benefiche ma anche di quelle che, distillate, restituiscono sostanze illegali. E le sue città non sono meno ‘fantasy’, se a Verona due giovani innamorati come Romeo e Giulietta sono corpi sussultanti come barche sbattute da venti in tempesta, e finiscono sepolti vivi nei sepolcri degli antenati tra le urla come di mandragola, lì dove cadaveri senz’occhi e con tibie putrescenti risorgono a una cert’ora della notte.
La strada per arrivare alla fine del bosco è la lingua da proporre e spesso da opporre, perché molto più del desiderio di fedeltà quello che eccita è la perversione del tradimento. Mi sono note le costrizioni che impone una struttura drammaturgica, così come gli obblighi dettati dalla metrica poetica. Eppure queste consapevolezze, invece di paralizzarmi, mi hanno dettato un approccio libero da ansie di prestazione: se un’opera scritta è già il tradimento di un’idea, il tradimento che è la traduzione non dovrebbe spaventare.
È con questo bagaglio di sapienze e strumenti che ho offerto una versione italiana ai personaggi di Romeo e Giulietta. E grazie a un’antica frequentazione della poesia ho progettato per loro anche una partitura di ritmi e rime. Siamo così abituati a sentire parlare Romeo e Giulietta in prosa che abbiamo dimenticato che tra loro i due amanti comunicano solo in versi. Se si escludono i personaggi di estrazione popolare (che però sono virtuosi del gioco di parole e dei doppi sensi), gli uomini e le donne delle opere di Shakespeare parlano una lingua che non esiste. Una lingua letteraria che nessuno parla e nessuno ha mai parlato. Ma che chiunque capisce.
Una lingua inventata e offertaci per essere, essa stessa, uno spettacolo nello spettacolo. Da quel lontano Cinquecento Shakespeare non ci consegna un dramma psicologico, ma un concerto barocco. Una festa poetica in cui ci si diverte appieno nella lingua originale e che non potrà mai essere tradotta, ma al massimo reinventata. Nel proprio modo e nel proprio tempo.
A oggi sono pochi i poeti italiani che hanno offerto a Shakespeare il suono della propria musica, ma i loro coraggiosi esperimenti sono traduzioni più riuscite di quelle che si appellano alla rigorosa filologia. Per quanto mi riguarda, il lavoro sulle opere di Shakespeare resterà tra le cose più difficili affrontate nella mia vita di autore, ma anche tra quelle che mi hanno regalato le felicità più durature.
[Articolo pubblicato per gentile concessione dell'editore Marcos y Marcos.]