Traduzione da: Letteratura islandese / Traduttore: Paolo Turchi
Immergersi nella lettura delle opere di Thor Vilhjalmsson è come fare un tuffo in un abisso interminabile di sentimenti, visioni immaginifiche e cruda realtà. Una commistione caotica ma organizzata di espressioni provenienti da lontani ricordi, lampi fulminei di pensieri che si collegano con la forza dell'immaginazione. Ogni parola, ogni frase ha il suo peso inscindibile dal contesto dell'opera. Un'opera di questo tipo ha costituito una sfida durata due anni, passati a soppesare ogni vocabolo, ogni aspetto della trama, ogni singola relazione tra i lemmi. La traduzione ha cercato di attenersi allo spirito onirico delle vicende, confermando l'impressione generale del lettore di trovarsi in un sogno senza inizio né fine, che potrebbe continuare in eterno.La realtà stessa dell'Islanda presenta questi due livelli che invece di intersecarsi nella vita di tutti i giorni, scivolano l'uno accanto all'altro: la dimensione dell'oggettività, costituita da un paese moderno e all'avanguardia nell'elettronica e proiettata nel futuro, e la dimensione nascosta, che si lega alla natura selvaggia di gran parte del paese, in molti punti quasi inesplorata, dove dimorano elfi e antiche divinità nordiche, dove il tempo scorre in maniera assai differente dal normale tempo umano, dove le ere hanno plasmato un paesaggio che esiste solamente nell'immaginazione collettiva del popolo delle saghe.Thor ha cercato di trasportarci in questo reame del passato, che continua ad aleggiare nell'aria, a vivere nei recessi mentali, a muoversi di moto proprio al di là della realtà quotidiana. Il romanzo deve leggersi in questa luce duplice, in cui ogni pagina ha un significato doppio, quello evidente alla prima lettura, e quello arcano nascosto tra le righe. Sogno e verità nelle stesse frasi, tangibilità e intangibilità nelle stesse vicende, vero e falso fusi in un amalgama impenetrabile.Due anni di traduzione che valgono una vita. Una soddisfazione intima indicibile. Vi auguro di ottenere le mie stesse gioie.
Paolo Maria Turchi