Traduzione da: spagnolo (Argentina) di Marzia Mascelli | Articolo di Ugo Vicic
I Cuentos de la oficina di Roberto Mariani sorprendono per la loro sveltezza, leggerezza, per l’originalità e l’ironia. Quando poi si scopre che sono stati scritti agli inizi del Novecento, lo stupore e l’ammirazione aumentano. Sembrano l’opera di un nostro contemporaneo – anche se al giorno d’oggi è poco diffusa la consapevolezza che la frenesia produttiva ci sta portando alla rovina. Era dunque più avanti Mariani nel riconoscere che siamo troppo devoti al dio Lavoro.
I racconti di questo pressoché sconosciuto autore argentino si leggono con estremo gusto. Mariani intrattiene il lettore utilizzando varie tecniche di scrittura, dalla personificazione di oggetti ed elementi naturali (il «vento borbottante che usciva dalla bocca aperta del macchinario») al periodare fulminante; dall’osservazione minimalista al monologo interiore; dalle descrizioni inusuali («aveva il viso incipriato di un pallore dissimulato») all’uso disinvolto, libero, ardito del discorso diretto e indiretto, fino al sorprendente capitolo finale in veste di copione.
Il sarcasmo è sempre misurato e intelligente, e sono apprezzabili anche i momenti più diretti, veri, dove l’autore trasmette chiaramente il proprio pensiero – come a pagina 94, dove parla senza mezzi termini di «adattamento artificiale e crudele ad una vita di lavoro e schiavitù».
Facile capire come all’epoca – ma forse ancora oggi – Mariani sia stato un autore scomodo e quindi non abbia goduto della popolarità e dell’apprezzamento che meritava. Egli infatti non è lontano dal grande Maupassant, proprio per la limpidezza, l’incisività e l’ironia di molti suoi brani. La parte finale del racconto Riverita ricorda poi il magistrale candore dell’Ernesto di Umberto Saba, mentre il racconto Uno si avvicina alla perfezione dei migliori racconti di Cechov (in particolare quel gioiello che è La morte dell’impiegato). È infine quasi inevitabile riandare a certe rappresentazioni sveviane dei colletti bianchi, soprattutto nel romanzo Una vita, dove però la famosa ironia di Italo Svevo deve ancora trovare il coraggio di manifestarsi, sopraffatta dal grigiore e dalla pesantezza di un mondo che l’autore conosceva assai bene.
Anche Mariani aveva lavorato e sofferto in una banca, però sembra che nei suoi Cuentos – anche grazie all’agilità offerta dalla forma stessa della composizione – abbia saputo prendere sufficiente distanza dalla materia trattata. A tutto vantaggio del lettore che usufruisce così di una narrazione varia e vivace. Contrariamente a certa moda dilagante, la trama dei libri non va spiattellata, nemmeno da parte dei critici più dotti. Resta il fatto che occorre stuzzicare la curiosità dei lettori, quindi rivelerò che i Cuentos di Mariani mettono in scena la ripetitiva, frustrante, servile vita di un gruppo di impiegati di ufficio, attraverso i loro rituali, le manie, le ansie, le paure e l’involontario umorismo di un’esistenza da vinti. Vinti che suscitano compassione, curiosità e una giusta dose di rabbia e ribellione, che certo non guasta in un’epoca che vorrebbe renderci nuovamente ottusi e sottomessi.
Geniale è il brano di inizio, che costituisce la chiave di lettura dell’opera, di un sarcasmo deliziosamente terribile. L’Ufficio, che in spagnolo è sostantivo femminile, attira fatalmente l’impiegato come una feroce sirena, pronta a prosciugargli corpo e anima («…e se non sarai morto tisico, poi ti darò la pensione») con l’illusione che sia invece lui a possederla. Un libro intenso, vitale, autentico. Tutto da assaporare.
Ugo Vicic