Traduzione da: Letteratura islandese - Traduzione di Silvia Cosimini
La prima volta che ho letto 'Gente indipendente' una decina di anni fa, durante un corso di letteratura contemporanea all'Università di Reykjavík, ho odiato con tutto il cuore Bjartur di Sumarhús. L'ho odiato per quella sua testardaggine ottusa, per quel suo mondo fatto solo di pecore, per quella meschinità di vedute che talvolta era anche specchio fin troppo fedele di alcune caratteristiche degli islandesi fra i quali vivevo. A chi mi suggeriva di cimentarmi nella traduzione del più grande romanzo di Halldór Laxness e colmare una lacuna letteraria da tempo sentita in Italia, rispondevo che non mi sarei mai voluta accollare quel compito, che all'epoca mi pareva già incommensurabilmente gravoso, per un romanzo che in fondo non apprezzavo e di cui non comprendevo la portata. È stato solo anni dopo, con l'attenta lettura - o le attente letture - garantita dall'operazione di traduzione, che sono stata in grado di valutare compiutamente questo romanzo: la traduzione mi ha consentito di vivere nella casa di torba in mezzo a quella brughiera inumana, di partecipare ai turbamenti inconsolabili di Ásta Sóllilja, di ascoltare le nenie impastate di paganesimo e cristianità della nonna; e non ho potuto fare altro che innamorarmi, in qualche modo, di Bjartur di Sumarhús, scoprendo la perfezione di un personaggio costruito magistralmente, forse il più vivo di tutti quelli prodotti dalla penna di Laxness, dove niente è fuori posto e ogni dettaglio porta al compimento di un'immagine inappuntabile. Lavorare su 'Gente indipendente' è spesso stato un vero piacere, nonostante il peso della responsabilità e il senso di inadeguatezza che un testo di questa levatura può comportare per un traduttore, e me ne ha rivelato le delicate simmetrie, i richiami sapienti, i risvolti anche meno palesi.
In mezzo a tutte le difficoltà che può presentare la traduzione di un testo dall'islandese, e la traduzione di un romanzo di questo premio Nobel, o del suo romanzo per eccellenza, c'è la presenza di un ricchissimo tessuto di versi, citati o suggeriti, che siano di altri autori o composti da Laxness stesso, talvolta su imitazione altrui. Risalire all'attribuzione di tali versi è già un'impresa di per sé, che presuppone non solo una conoscenza quasi maniacale dell'intero corpus letterario islandese ma anche la possibilità di svolgere ricerche approfondite in tal senso. Un caso è costituito dalle ballate sei-settecentesche che costituiscono il pane quotidiano di Bjartur e che non sono, ovviamente, mai state tradotte in italiano: queste rímur venivano composte secondo un metro complicatissimo di cui esistono decine e decine di varianti, e che prevede anche le rime interne e le rime finali oltre alla cosiddetta allitterazione consonantica in inizio di parola, a legare i versi a due a due (il secondo emistichio del primo verso col primo emistichio del secondo), già di tradizione germanica antica. Nell'impossibilità, o in effetti nell'incapacità, di mantenere un metro simile in italiano e non volendo aderire alle scelte dei traduttori in altre lingue, che hanno ridotto considerevolmente il numero dei versi e hanno operato spesso delle vere e proprie riscritture delle poesie, privandole in molti casi anche di una minima aderenza al testo originale, ho preferito impiegare una metrica a noi più vicina, mantenendo costante il numero di sillabe e rimando secondo schemi di volta in volta diversi, avvalendomi anche del prezioso aiuto dell'amico Francesco Francis, che verseggia con estrema disinvoltura.
Nella ricchezza della prosa di Laxness, così molteplice, partecipe, sempre molto ironica - l'ironia è tratto tanto più apprezzabile quanto raro negli islandesi - e spesso arcaicizzante, nella scelta di vocaboli in disuso, si incontra un'abbondanza paratattica che risulterebbe pesante, se mantenuta in uguale misura, nella prosodia italiana. Bjartur stesso si esprime con un periodare semplice e poco involuto, specchio della linearità, se non della pochezza, dell'animo del contadino, come le sue creazioni poetiche che sono spesso forma vuota. La ricchezza di coordinate è una caratteristica già della prosa medievale islandese, un tratto fondante delle saghe e della letteratura arcaica in genere, indice di eventi percepiti più in successione o sovrapposizione che secondo logiche consequenziali. Laxness scrisse numerosi saggi e articoli dedicati alla questione della punteggiatura e impiegò sempre quella che lui stesso definiva "interpunzione artistica", che deve cioè dipendere esclusivamente dall'autore ed è un tratto del suo stile anziché una morta regola sintattica. È ovvio che davanti ad un autore così conscio del proprio uso dell'interpunzione non si dovrebbero operare scelte in favore della punteggiatura italiana, ma talvolta è stato inevitabile tentare di trovare un equilibrio, in quanto alcune serie pesantissime di coordinate per asindeto non risultavano piacevoli né del tutto comprensibili. Altro mio rammarico è quello di non aver potuto evidenziare le innovazioni grafiche di Laxness, che nei suoi scritti impiegava una grafia tutta sua, molto più fonetica e meno etimologica, scombinando letteralmente la rigida linguistica islandese.
Una finestra come questa rappresenta un'occasione rara per un traduttore, e nel mio caso rischia forse di diventare una sorta di confessionale in cui poter riversare sui lettori i propri rimpianti e omissioni; ma se la traduzione deve essere 'viva', quello che ho tentato di fare con questo compito titanico è stato proprio dare un corpo, dare una voce alla vita che ho vissuto per lunghi mesi nella brughiera, insieme a Bjartur di Sumarhús.
Silvia Cosimini