Traduzione da: Traduzione dallo sloveno di Patrizia Raveggi
Un non-romanzo, dunque. Questa volta Goran Vojnović ci offre riflessioni, appunti a carattere storico e psicologico, dun¬que l’approccio non è narrativo; pure, leggendo un capitolo dopo l’altro, si ha la sensazione di trovarsi al centro di un rac¬conto che si dipana su piani temporali diversi e concentrici, dal Prologo e la figura del bisnonno di origini ucraine Leon Obleščuk alla questione identitaria (la non-appartenenza, il non essere definiti da un nome, da un’etichetta, può essere un privilegio, una sorta di patente di sincerità e trasparenza), dalla fanciullezza dell’autore (le figure dei genitori, i fili sottili che per decenni lo hanno legato e ancora lo legano ai loro sogni e alle loro paure che sono anche i suoi), al suo (mesto) sguardo di adulto su ciò che sta diventando – soffocata da architetti e progettisti urbani, gli unici autorizzati a giocare con lo spazio – Lubiana, la città dove lui e i suoi figli sono nati, dove vive e lavora, e che non ha mai sentito sua, salvo in rarissimi eccezionali momenti e allo sguardo (ancora più sconcertato e presa¬go) sull’Europa giusta e umanitaria, quella che da settant’anni continuava a ripetere never again e che negli anni Novanta non ha visto, non ha sentito ciò che stava accadendo a poche cen¬tinaia di chilometri dai suoi confini, che nel 1995 si è limitata ad assistere in silenzio al massacro di Srebenica, quella che oggi è «un’Europa che chiude le frontiere a chi fugge da qualche nuovo Mladić e Karadžić […]» (Gente di un tempo sospeso, p. 72).
A questa Europa nulla è vicino e sta diventando estranea anche a sé stessa «un continente remoto che non vuole capire un tempo che si è fermato e un dolore che non si placa».
L’Europa si è adoperata e si adopera in ogni maniera al fine di far sì che in apparenza il never again rimanga tale, che sembri che la guerra e i suoi orrori in apparenza non si stiano ripeten-do, che gli eventuali scontri (e con essi le vittime, i disastri) avvengano in luoghi da noi troppo lontani perché dobbiamo preoccuparcene, oppure siano di altra natura, questioni inter¬ne, guerre civili ovvero interventi militari necessari (per esem¬pio l’aggressione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti).
I cerchi continuano a srotolarsi fino a toccare i giorni nostri, la guerra in Ucraina, la pandemia, sempre e sopra ogni cosa la disgregazione della Jugoslavia e ciò che ha significato per colo¬ro che l’hanno subita.
Raggruppati in cinque sezioni tematiche, i diciotto saggi – di grande trasparenza e di superba scrittura, arguta, autocritica, ironica, tenera, commovente, qua e là pungente, altrove mesta – sono stati tutti pubblicati dal 2014 al 2021 (salvo Ritorno all’illusione, inedito, e Il rispetto per il prossimo e la paura, tra¬smesso sul terzo programma della Radio slovena) su quotidiani e riviste sloveni («Dnevnik», «Literatura»), tedeschi («Frankfur¬ter Allgemeine Zeitung»), serbi («Vreme»), croati («Telegram»), sulla piattaforma europea «Versopolis», sulla rivista svedese «Sydsvenskan» (C’è un dolore che ha una vita più lunga della vita stessa), e scritti nelle rispettive lingue (l’autore ringrazia Biljana Bojan Vojnović – la madre e il padre – per la stesura in serbo-croato); rielaborati radicalmente per l’edizione libraria, molti di essi hanno costituito soltanto il pretesto per una rifles¬sione ulteriore.
Il piglio è narrativo, sostenuto da immagini filmiche, di presa immediata «immagini nitide, quasi incandescenti» (Dražen, p. 98), e dalla incomparabile capacità dell’autore di imprigionare l’attimo fuggente, «i nostri allontanamenti dalla realtà, da tutti quei momenti altamente insoliti in cui noi non siamo veramente noi e ciò che sperimentiamo non è veramente la nostra vita» (Ritorno all’illusione, p. 128).
I riferimenti auto¬biografici continui e spesso aneddotici, sorridenti e leggibili come racconti brevi. Colpiscono dritto al cuore i tre capitoli della sezione Il diritto alla nostalgia, improntata alla generosa e coraggiosa ossessione per il lascito del paese dissolto del poeta, saggista, scrittore e pubblicista Aleš Debeljak, ne cele¬brano la rivolta intellettuale contro il dilagare dell’ignoranza, il suo rivolgersi con nostalgia allo spazio culturale jugoslavo, la cui perdita è da lui stata pubblicamente e ripetutamente dichiarata fatale per la giovane Repubblica di Slovenia.
Se il tono si alleggerisce nel capitolo La lingua del nostro apparta¬mento (la divertita messa alla berlina della costruzione a tavo¬lino di una purissima lingua croata, ben distinta da quella serba e bosniaca e montenegrina), in Dražen l’ammirazione e l’amore per un eccelso e irraggiungibile modello sportivo si unisce all’amarezza per l’avvenuta divisione del suo pubblico, dei suoi fan.